Sui sentieri di Ivan Illich

    di Alberto Ghidini

    La critica anticipatrice a una scuola-azienda che dispensa pacchetti di conoscenze finalizzati a congelare e riprodurre le differenze di potere dominanti nella società

    Non è poi trascorso così tanto tempo da quando, nel 1997, il filosofo dell'educazione Riccardo Massa rilevava come la scuola, messa un po' da parte dopo gli anni della contestazione, fosse di colpo tornata al centro della scena politica e sociale. Per Massa la «nuova proliferazione di discorsi» intorno ad essa era la prova della crisi di questa istituzione - del suo senso, della sua forma - nella modernità travolta dalla frantumazione generale di valori e rappresentazioni, idee e linguaggi, innescata dalle logiche culturali del tardo capitalismo.

    Fino a tempi tutto sommato recenti, in questa crisi e nella conseguente esplosione discorsiva si potevano ancora avvistare gli spazi per una riappropriazione collettiva culturalmente e pedagogicamente significativa della vita scolastica - o, se si preferisce, della «scuola reale» - a partire dall'attività quotidiana, dal basso e da parte dei suoi attori principali: insegnanti, studenti, genitori.
    Oggi, tale possibilità risulta fortemente indebolita, non soltanto dalle pedagogie e dalle antropogenesi che, pure operanti al di fuori dei confini del sistema educativo, nella comunicazione di massa e nelle pratiche di consumo, hanno comunque messo in crisi l'assetto culturale e formativo della scuola moderna, ma anche (e forse soprattutto) da un disegno economico-politico comune a molti paesi industrialmente avanzati. 

    La comunità che viene
    Un disegno che mira a cancellare ciò che accade e «resiste» nella scuola, entre les murs, per dirla col titolo originale del romanzo di François Bégaudeau, fonte di ispirazione dell'omonimo documentario di Laurent Cantet, il cineasta francese Palma d'Oro a Cannes nel 2008 che per un anno ha fatto ciò che ministri ed esperti di tutto il mondo dovrebbero provare a fare: entrare in una classe di una scuola pubblica, seguire docenti e alunni nei loro percorsi educativi, scoprire le difficoltà dell'insegnare e dell'apprendere, cogliere l'umanità di una «comunità che viene» nella dissoluzione dei legami e dei tessuti sociali che investe il mondo contemporaneo.
    Invece, esperti e ministri, quasi sempre conoscitori improvvisati della scuola (in Italia ne sappiamo qualcosa), parlano, discutono, riformano, senza tenere minimamente conto di quel che succede tra le mura degli edifici scolastici, dettando un «ordine del discorso», nella terminologia foucaultiana, fatto di parole plasmate per fini strumentali; per definire l'organizzazione e le finalità della scuola sul portfolio neoliberista, che trasforma gli studenti in «clienti» e gli insegnanti in meri «prestatori di servizi educativi».
    A ben guardare non si tratta di una novità: in poco meno di quindici anni scuola e università hanno subito lo stesso processo di aziendalizzazione toccato ad altri patrimoni di civiltà democratica come le ferrovie, la sanità, l'assistenza e le poste, con tanto di campagne politiche e mediatiche d'ogni indirizzo e di pareri spesi da tecnici ed economisti sulla necessità di ridurre le spese dello Stato.
    La cosa sorprendente, come fece notare da principio Domenico Starnone nella sua nota a margine a La scuola è vostra di Raoul Vaneigem, è che la tendenza, al di là dei differenti - e talvolta contrapposti - schemi pedagogici, è quella di considerare la pubblica istruzione «valida» soltanto se rispondente ai bisogni del capitale che chiede forza lavoro flessibile e obbediente. In fondo le cose non sono cambiate: al momento molti ragazzi studiano per potersi trasformare in lavoratori usa e getta, con la complicità delle famiglie e di tanti insegnanti convinti che il loro compito sia quello di preparare «risorse umane».
    Gilles Deleuze già lo aveva anticipato nel suo Poscritto sulle società di controllo del 1990, teorizzando, sulla scia della biopolitica di Foucault, il passaggio dalla società disciplinare a un regime di controllo «morbido», nel quale l'acquiescenza degli individui è richiesta e ottenuta attraverso l'aziendalizzazione di ogni segmento del sistema. Analogamente Ivan Illich, teorico del disestablishment, della «deistituzionalizzazione» dell'intera società prendendo le mosse dalla scuola e dai suoi effetti «controproduttivi», all'inizio degli anni Novanta, si era accorto di come i sistemi di formazione aziendalizzati producessero studenti abituati al fatto che ciò che imparano debba essere loro insegnato.
    Nello scenario attuale sembra che il «programma occulto» della scolarizzazione denunciato da Illich, programma che riduce l'apprendimento da attività in «merce», si sia oltremodo esplicitato lasciandosi dietro d'un sol colpo i moralismi e i tecnicismi in cui tuttora si arena il dibattito pedagogico.
    Da questo punto di vista l'analisi e la critica alla scuola del pensatore austriaco, come analisi e critica alla società, alla funzione coercitiva delle sue istituzioni, è quantomai attuale. Provvidenziale, allora, la ripubblicazione di Descolarizzare la società, besteller mondiale degli anni Settanta, da anni fuori commercio in Italia e recentemente riapparso in libreria con il caparbio sottotitolo Una società senza scuole è possibile? (postfazione di Paolo Perticari, Mimesis, euro 14). Il testo riprende pressoché fedelmente la traduzione di Ettore Capriolo uscita per Mondadori nel 1972 - da tempo scaricabile integralmente dalla rete in copyleft - con l'aggiunta di un saggio in appendice che continua idealmente il percorso intellettuale del libro ponendo il problema delle alternative alla dipendenza di una società dalle proprie scuole.
    Descolarizzare la società, come del resto tutti i lavori di Illich, trae il suo estro dalle «osservazioni sul campo» condotte dal suo autore. Nel 1956, dopo aver trascorso alcuni anni lavorando come prete di strada con gli immigrati portoricani in una parrocchia di New York, Illich si trovò a ricoprire l'incarico di vice-rettore dell'Università Cattolica di Ponce, a Porto Rico. Solo un anno dopo fu nominato membro del Consiglio Superiore dell'Istruzione dell'isola, un organo di direzione e controllo di tutti i livelli del sistema formativo, dalle scuole elementari all'università. 
    Fu in quegli anni che cominciò a chiedersi, da un punto di osservazione à l'intérieur, che cosa fosse quella struttura creata intorno all'istruzione che prende il nome di «scuola». Poco più tardi, sul finire degli anni Sessanta, in un momento storico in cui il problema dell'educazione venne a trovarsi al centro dell'attenzione in gran parte del globo, Illich tenne una serie di seminari sul monopolio del modo di produzione industriale presso il Centro Interculturale di Documentazione (Cidoc) da lui fondato e animato a Cuernacava, in Messico. 

    Saperi preconfenzionati
    Il primo «settore industriale» che scelse di analizzare, influenzato da alcuni frequentatori del Centro, tra cui Paulo Freire e Paul Goodman, per citarne due fra i tanti, fu la scuola. Dai lampi dei seminari del Cidoc prese forma, nel 1971, Deschooling Society, subito letto, piuttosto malamente, sull'onda della protesta, come un'accusa utopica e contestataria alla scuola. 
    In realtà, Illich riconosceva alla scuola la capacità di organizzare l'apprendimento. Certo, però, a determinate «condizioni». A condizione, ad esempio, che la scolarizzazione rinunciasse al suo «monopolio radicale» e non si ponesse più come unica via per ottenere un impiego e una posizione sociale. Quel che Illich contestava profondamente era la strumentalizzazione - ma si potrebbe sostituire questo termine con «aziendalizzazione» - dell'educazione finalizzata alla trasmissione di saperi appositamente confezionati per relegare donne e uomini in ruoli sociali predefiniti. In questo sistema, si era ben convinto, con almeno vent'anni di anticipo, che l'educazione diventasse un valore di mercato e, in quanto tale, avesse bisogno di una continua fabbricazione e immissione di «prodotti» - programmi, corsi, offerte formative, insegnamenti - conformanti. Di qui (e non solo, a scorrere rapidamente i titoli dei suoi libri) la freschezza della sua critica alla scuola e alla società, che difficilmente, dopo di lui, sono state messe in discussione con la stessa appassionata radicalità.
    Da oggi la prima biografia di questo gigante della cultura del Novecento è a disposizione del lettore digiuno che voglia avvicinarsi con alla critica sociale illiciana. Ivan Illich. La sua vita, il suo pensiero è il titolo di questo lavoro, firmato da Martina Kaller-Dietrich (edizioni dell'asino, prefazione di Wolgang Sachs, traduzione di Maria Giovanna Zini, revisione di Giovanna Morelli, euro 12), che facilita non poco l'accesso al pensiero dell'autore, la cui opera, come peraltro si è visto, non può essere separata dalla storia di vita.
    Lo studio della Kaller-Dietrich si propone di spiegare l'evoluzione del pensiero di Illich evidenziandone le peculiarità, i diversi fattori, interni ed esterni, che in qualche modo hanno esercitato un'influenza significativa nel suo percorso intellettuale: libri letti, esperienze vissute, avvenimenti storici, persone incontrate, che hanno portato Illich all'avvio di percorsi di ricerca originali e sempre in controtendenza rispetto al mainstream.

    Oltre la tradizione
    Nell'introduzione a un volume di Illich pubblicato meno di due anni fa e intitolato I fiumi a Nord del futuro (edizione italiana a cura di Milka Ventura Avanzinelli, Quodlibet, euro 24), che si congiunge, completando il progetto di Michele Ranchetti, a Pervertimento del critianesimo, il curatore David Cayley, un giornalista canadese amico-interlocutore dell'ultimo Illich, scrive come il filosofo sia riuscito ad aprire «molti più sentieri di quelli che poteva personalmente esplorare fino in fondo». Sentieri che procedono - lo si capisce bene leggendo la biografia illiciana - come continui sviamenti, errando. Tornando alla questione centrale e al punto di partenza, l'attualità di Illich è qualcosa da praticare ricostruendo e prolungando questi sentieri, individuando le fratture con i modelli della tradizione e della politica (e con le loro proiezioni future) che lui stesso era riuscito a cogliere. E, proprio muovendo da queste fratture, ripensando nella sua essenza la forma e il senso delle istituzioni moderne. Magari, come Illich, cominciando dalla scuola e dall'esperienza che accomuna in essa ragazzi, genitori e insegnanti.
    Il Manifesto 20.05.2011