Profeta on the road

 di Massimo Bucciantini

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Quella del Nolano è una delle vite più avvincenti della storia della filosofia. A 28 anni iniziò una fuga senza fine in cerca di un luogo in cui esercitare la propria libertà di pensiero.

Se c'è un filosofo che ha passato gran parte della sua esistenza on the road, questo è sicuramente Giordano Bruno. Perciò i libri che ne raccontano la vita sono sempre così avvincenti. Non c'è bisogno di inventarsi niente per renderla più attraente: la storia è lì, sotto gli occhi di tutti, e sembra fatta apposta per appassionare ogni tipo di lettore, fino a diventare oggetto di culto. Volete mettere il piacere di narrare le gesta del Nolano rispetto alle vite "normali" di un Kant o di un Newton? Oppure di un Darwin, con l'eccezione degli anni straordinari trascorsi a bordo del «Beagle»? Se il piacere di raccontare Kant, Newton, Darwin è tutto mentale, e l'emozione (grande, non c'è dubbio) sta nel ricostruire le grandi rivoluzioni del pensiero di cui furono protagonisti, per Bruno, la sua «nova filosofia» è inseparabile da una vita di migrante tutta avventura, lotte, conflitti: un bel drammone hollywoodiano come quelli che tanto piacciono oggi, e per di più con un finale di partita cupo e tragico. Non per nulla una vita così irregolare e "furiosa" è stata più volte romanzata e rappresentata a teatro. Soprattutto nell'Ottocento: in Germania, come in Inghilterra e, ovviamente, in Italia. Bruno eroe e profeta, immagine perfetta del filosofo ribelle che finisce per trovare posto nel Pantheon della nuova Italia accanto non solo a Dante e Machiavelli, ma anche a Garibaldi e Mazzini. La scoperta dei momenti salienti della sua vita, che avviene soprattutto a partire dagli anni Quaranta e Cinquanta dell'Ottocento, provoca un crescendo di entusiasmi e di odi viscerali, e trova il suo culmine a Campo dei Fiori, quella mattina del 9 giugno 1889, quando intorno a mezzogiorno, dopo ben tredici anni di estenuanti battaglie, viene inaugurato di fronte a una folla di popolo venuta da ogni parte d'Italia il monumento dello scultore, repubblicano e massone, Ettore Ferrari.
Per avvicinarsi a Bruno, a quello vero, alla sua vita vagabonda e vertiginosa, e provare così a viaggiare con lui, occorre munirsi di una carta geografica dell'Europa. Ed è ciò che bisogna fare anche in questo caso, in occasione dell'ultima biografia a tutto tondo appena uscita in Italia e a lui dedicata.

Dal 1576, dall'età di ventotto anni, iniziava per Bruno una fuga senza fine alla ricerca di un luogo in cui poter vivere e filosofare liberamente. Deposto l'abito domenicano, eccolo prima a Genova e a Torino, poi a Venezia e Padova, infine – passando per Brescia, Bergamo, Milano e Savona – decideva di lasciare l'Italia per dirigersi a Lione e a Ginevra. Qui si fermò circa due mesi aderendo al Calvinismo, ma poco dopo, nell'agosto del 1579, veniva processato per diffamazione e scomunicato. Poi era la volta di Tolosa, dove per venti mesi insegnò filosofia e astronomia, e di Parigi, dove nel 1582 pubblicava le sue prime opere, il De umbris idearum, il Cantus Circaeus, il Candelaio. Poi di nuovo un'altra fuga, questa volta in Inghilterra (forse per la decisione del clero di applicare sul territorio francese le disposizioni stabilite dal Concilio di Trento contro la lotta all'eresia). L'obiettivo è sempre lo stesso: trovare una sistemazione universitaria che gli consenta di proseguire in piena libertà il proprio lavoro. Che però, anche questa volta, non riuscì a ottenere, come subito lascia immaginare un dispaccio di Henry Cobham, ambasciatore a Parigi, inviato a Francis Walsingham, primo segretario della regina Elisabetta: «Intende venire in Inghilterra il dottor Giordano Bruno, Nolano, professore di filosofia, la cui religione io non posso approvare». Del resto, si chiede Bertrand Levergeois, «perché mai un anglicano avrebbe dovuto provare una qualche benevolenza nei confronti di un domenicano apostata, accompagnato da una scomunica calvinista, il cui pensiero, che si tratti della teorie delle ombre, di mnemotecnica o della sua commedia, aveva preso le distanze dalla teologia?».
Chi leggerà questo libro apprezzerà quanto fecondo sia stato questo periodo della sua vita (con la pubblicazione di alcune delle sue opere più celebri: dalla Cena de le Ceneri al De la causa, dal De l'infinito, universo e mondi allo Spaccio della bestia trionfante), ma anche quanto aspra e violenta fu la reazione che l'accademia oxoniense riversò su questo filosofo di nessuna accademia. «In Oxonia», ricorderà Bruno nella Cena, domina una «costellazione di pedantesca ostinatissima ignoranza e presunzione mista con una rustica inciviltà». E così dopo aver lasciato l'Inghilterra ritornava di nuovo in Francia, per passare in Germania e Boemia. Poi ancora in Germania, a Tubinga, a Helmstedt e a Francoforte, dove restò circa sei mesi, fino ai primi mesi del 1591, curando la stampa di tre poemi, il De minimo, il De monade e il De immenso: libri quasi "sacerdotali", e pieni di geometria "metafisica" e "qualitativa", che nulla hanno in comune con la matematizzazione della natura a cui si richiameranno di lì a poco un Galileo o un Kepler. Infine, arriva la decisione sciagurata di rimettere piede in Italia.
Gli ultimi capitoli sono ovviamente dedicati alle vicende processuali, venete e romane. Sono tra i più efficaci, dove il racconto si fa ancora più veloce e stringente, grazie anche all'impiego costante della documentazione sul processo raccolta da Luigi Firpo. E non c'è una pagina che non mostri attenzione e passione verso la vita e le opere del Nolano: un lavoro intellettualmente onesto, che si rivela un ottimo punto di partenza per chi vuole entrare nell'intricato e multiforme universo bruniano. C'è però una cosa che poteva essere considerata: e cioè che questa edizione italiana esce diciotto anni dopo l'edizione originale francese. Perché non si è sentita l'esigenza da parte dei direttori della collana (intitolata, tra l'altro, proprio «Campo dei Fiori») di procedere a un suo aggiornamento o comunque a una sua integrazione con un'ampia e nuova introduzione?

In questi ultimi due decenni gli studi bruniani hanno compiuto passi da gigante grazie alla pubblicazione di nuove edizioni di testi, nuovi documenti, numerosi lavori critici di qualità. Non tenerne conto e decidere di pubblicare, oggi, una biografia datata 1995 come se nel frattempo niente o quasi fosse accaduto è certamente un limite. O perlomeno a me pare così. Soprattutto se si considera l'importanza che per una biografia come quella di Bruno hanno le fonti documentarie, davvero rarissime.
La ricerca scientifica di cui tanto si parla non è solo quella che si compie nei laboratori di biologia, di fisica o d'ingegneria. C'è anche un altro tipo di ricerca di cui quasi più nessuno si accorge, quella che si svolge dentro alle sempre più povere e disastrate biblioteche e archivi storici di questo Paese, che è ormai incapace (per ignoranza e incuria) di accorgersi della loro unicità e ricchezza. Come appunto dimostrano due recenti scoperte bruniane. La prima è un documento straordinario: uno schizzo a inchiostro di Giordano Bruno tra le fiamme eseguito da un notaio che assisteva al rogo. È stato rinvenuto nell'Archivio di Stato di Roma e pubblicato da Nuccio Ordine sul «Corriere della Sera» il 17 febbraio del 2011 e, successivamente, con un ampio commento, da Michele Di Sivo e Orietta Verdi sull'ultimo fascicolo di «Bruniana & Campanelliana». Il secondo è un avviso anonimo pubblicato tre anni fa da Federica Favino sulla rivista «Galilaeana», in seguito annunciato su queste pagine, e rintracciato nella corrispondenza del fondo Orsini che si conserva nell'Archivio Storico Capitolino di Roma. Una testimonianza notevole che si aggiunge a quella ben nota di Kaspar Schopp. Anch'essa fornita dal vivo e in diretta, e che non può mancare in un'aggiornata biografia del filosofo nolano: «Sta per brugiarsi un relasso ostinato chiamato Tadeo sic Bruno da Nola grandissimo letterato che per tre anni è stato al Santo Officio, il quale ultimamente dicesse al cardinale Santa Severina che egli di dottrina, et massime di filosophia sapeva più di San Tomaso, et che con magior allegrezza haveva intesa la sua sentenza di essere arso, che essi con amaritudine et dispiacere non glila havevano letta».
Inserto Domenica, Il Sole 24 ore, 17 febbraio 2013