La verità su Mauro Rostagno oltre i depistaggi

di Adriano Sofri

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SI ARRIVA alla condanna attraverso cerchi via via più stringenti. Il primo riguarda il contesto civile. Nel 1988 Mauro Rostagno è da due anni assorbito dal giornalismo militante, condotto con una peculiare franchezza, ironia, spaesamento di linguaggio e gesti .
SPAESARE, in città belle e tradite come Trapani, è una necessità primaria. È questo il significato della frase di Mauro di cui si è fatto un epitaffio, «sono più trapanese di voi, perché io l’ho scelto…», che costringeva i trapanesi “veraci” a chiedersi che genere di trapanese fosse lui e fossero loro. Mauro proponeva un’altra convivenza. La mafia, diceva, non è solo orribile, efferata, vigliacca, è l’ignoranza di ciò che fa sensata e bella la vita.
Secondo cerchio, il contesto logistico e materiale. La Fiat Uno dell’agguato era stata rubata a Palermo con sei mesi di anticipo e tenuta di riserva. Che si sia potuto rendere un simile dettaglio compatibile
con la pista cosiddetta interna alla Comunità Saman, o con quella del “delitto fra compagni”, è difficile ammettere. E anche il fucile “esploso” — non era esploso, hanno stabilito i periti — diventava il pretesto per escludere la pista mafiosa, benché incidenti analoghi non siano stati rari nei delitti di mafia. L’argomento segnala la soggezione, fra ammirata e spaventata, nei confronti della mafia: cui si farebbe torto a dubitare che non sia perfettamente efficiente nella sua potenza di fuoco, e nella sua onnipotenza. Alla mafia le armi non si inceppano, i fucili non si spezzano. Di qui la versione dell’impresa da “balordi”: che aveva bisogno di negare a oltranza il fatto che Mauro viene colpito, fermato e finito da due armi diverse maneggiate a regola d’arte, e la sua passeggera, che lui già ferito si premura di difendere, esce illesa. Allora si è detto che lei, Monica Serra, ha mentito, che era scesa dall’auto, che tutto è stato una messinscena balorda e insieme perfetta. Solo che era rimasta illesa anche la moglie dell’agente di polizia penitenziaria Giuseppe Montalto, seduta accanto a lui in auto, con una bambina in braccio e un’altra nel grembo, e ad ammazzare Montalto era stato il Vito Mazzara oggi
condannato per aver sparato a Mauro.
Il terzo cerchio: il contesto mafioso. Le minacce che Mauro aveva ricevuto in vita erano la premessa: ma non occorrevano gli avvertimenti del boss Mariano Agate su “chiddu c’a varva”, quello con la barba, che smettesse di dire minchiate, per far sentire già allora che “chiddu” stava mettendo in gioco, con la più seria delle leggerezze, con la più leggera serietà, la propria vita. Tutti hanno ricordato l’attenzione che Mauro si era di colpo conquistato nel raggio della altrimenti insignificante televisione . Nell’irruzione di Mauro nel paesaggio trapanese avevano contato il suo talento personale, corporale, i suoi argomenti e la sua lingua; ma anche la sensazione provata da chi lo guardava, di avere davanti a sé un camminatore sul filo, di ammirarne il virtuosismo, e di trepidare per l’imminenza della caduta. Solo che qui gli spettatori non si aspettavano che perdesse l’equilibrio — l’equilibrio Mauro l’aveva lasciato giù, coi suoi panni pesanti, al momento di salire sulla corda — ma che qualcuno di quelli restati a terra lo mettesse nel mirino. Trapani fu sbigottita, il giorno dopo: ma gli stessi sbigottiti se l’aspettavano. Un quarto di secolo di malignità sono state propalate sull’assassinio di Mauro: però chi avesse interpellato un trapanese al riparo dalla paura, avrebbe raccolto una sola risposta: «Parlava assai. Ci diceva tutte cose». E sono arrivate, come se si fosse rotta una diga, le dichiarazioni degli affiliati di Cosa nostra. Altro indizio della losca soggezione alla mafia citata sopra: quando i mafiosi non avevano ancora interesse a parlare, o gli inquirenti non avevano ancora interesse a interrogarli, si faceva passare il silenzio
dei boss e dei killer come una prova dell’estraneità della mafia. Come se la mafia fosse davvero onorata e onorabile, e anche dei magistrati arrivarono a scusarsi con Cosa nostra. Cito solo la leggenda incorreggibile di Agate che in carcere dice a : «Cosa vostra è», benché Curcio e Agate non siano mai stati nello stesso carcere, e Curcio abbia sempre smentito. Le testimonianze dei mafiosi al processo sono state numerose, concordanti e, in particolare quelle di Francesco Milazzo, Angelo Siino, Vincenzo Sinacori, circostanziate.
E siamo all’ultimo cerchio, quello che si stringe attorno alla responsabilità personale degli imputati. In un processo penale, anche quando vi entra tanta parte della peggiore storia di un paese, si giudicano le responsabilità personali, e nessuna delle famigliari di Mauro avrebbe voluto condanne “esemplari” cui non bastasse la prova: tanto meno quando a subirle fossero persone già condannate in modo definitivo alla pena perpetua. La perizia sulle tracce di Dna sui frammenti del fucile ordinata dalla Corte ha segnato, a tre anni dall’inizio del processo, un coronamento decisivo. Aveva detto il presidente Angelo Pellino: «Se abbiamo disposto questo accertamento, è perché i periti hanno segnalato la necessità, la opportunità, e quindi la perlomeno potenziale proficuità… Fermo restando che ci muoviamo nel campo delle valutazioni probabilistiche. Questo l’orizzonte, diciamo, limitato, limitativo e limitante di questo approfondimento». Quando parlava dell’orizzonte limitato, il giudice non poteva immaginare che all’esito, una volta separate le tracce dei “professionisti” che avevano maneggiato i reperti, non solo sarebbe risaltata la “molto forte” compatibilità col Dna di Vito Mazzara, ma sarebbe emerso ancora più nitidamente un profilo genetico, siglato “A 18”, corrispondente a un parente di Vito Mazzara. Era il colpo di scena: concretamente, raddoppiava la prova. Esito unico nella storia forense: mai si era separato il Dna di un imputato da quello di otto pubblici ufficiali che avevano maneggiato il reperto, mai si era trovato senza cercarlo uno stretto consanguineo dell’imputato. Anche ammesso, per assurdo, di ignorare il profilo di Mazzara rintracciato sul reperto, e di confrontare il Dna di Vito Mazzara, così come prelevato oggi, al Dna di “A 18”, la parentela è provata. Immaginate una spiegazione qualunque alla scoperta che sul fucile di un assassinio c’è l’impronta nitida di un parente stretto dell’imputato di quell’assassinio? Pervicace nel negare ogni presenza della mafia, e spericolata nel mettere assieme tutte le “piste” via via avanzate — in un complotto che andava dai servizi segreti alla famiglia di Mauro — la difesa di Mazzara ha anche alluso alla possibilità che l’esecutore fosse il parente: quale sostanziale mutamento poteva venire, da un simile slittamento, alla situazione dell’imputato?
Per inficiare il lavoro dei periti, il consulente della difesa di Mazzara, l’ex generale del  Garofano aveva ripiegato sull’effettaccio, sostenendo che l’esame assegnato dalla Corte fosse a priori inaffidabile (dunque la Corte aveva dilapidato denaro pubblico) e a posteriori rivelato eguale a zero: nulle tutte le tracce di Dna identificate e comparate. Una contestazione così globale da annullarsi da sola. Garofano aveva evitato con cura di misurarsi con la parentela fra A 18 e l’imputato. Ma era stato proprio l’altro consulente, Marzio Capra, per la difesa del vecchio boss Vincenzo Virga, a liquidare la pretesa dell’ex superiore al . Capra si congratulò con le signore perite per la brillantezza del risultato ottenuto nell’individuazione del profilo “A 18”: dopo di che si era guardato anche lui dall’affrontare le conseguenze della parentela ritrovata.
Questo è stato l’itinerario essenziale di un processo durato tre anni e mezzo, concluso ventisei anni dopo l’omicidio, che ha detto questo: la mafia uccise Mauro Rostagno.
La Repubblica 16.05.2013