Il campo di prigionia di Altamura nel 1944

Denys

Nel 1944 Denis Avey, un soldato britannico impegnato in guerra nel Nord Africa, viene catturato dai tedeschi e spedito in un campo di lavoro per prigionieri ad Auschwitz. Nel suo peregrinare passa per il campo prigionieri di Altamura numero  65. Nel libro di Auschwitz. Ero il numero 220543, pubblicato nel 2011, sono descritte le condizioni in cui si viveva.

 [...] C'erano lunghe baracche di pietra e cemento, con il soffitto basso, ciascuna divisa in cinque settori con tavolacci per letti, e cinquanta persone in ognuno di essi. Ci assegnarono un paio di coperte pesanti e un pagliericcio sottile come materasso. Era il campo di concentramento per prigionieri di guerra numero sessantacinque. Si trovava nei pressi di Altamura, al Sud.

Uno degli ufficiali italiani, un maggiore, somigliava a Jimmy Cagney. Con lui si poteva parlare, e quando gli dicemmo di quella somiglianza, ne andò fierissimo. Al campo non eravamo costretti ai lavori forzati, né sottoposti a trattamenti brutali, ma morivamo di fame.

C'era una cucina all'aperto, e gli italiani abbattevano degli alberi per alimentare il fuoco. Uno dei ragazzi con un po' di energia residua li tagliava in ceppi. Forse gli concedevano qualche razione extra. Sulle fiamme veniva collocato un enorme paiolo nel quale finivano le scorte disponibili, di solito appena una manciata di maccheroni. Quando era cotta, la zuppa veniva portata per il campo in contenitori di alluminio da quaranta litri, e distribuita: non più di un mestolo di sbobba a testa, al giorno. All'inizio ci davano anche una fettina di pane, ma presto anche quella divenne la metà. Per colazione c'era solo un sorso di succedaneo di caffè, nient'altro. Già all'arrivo eravamo tutti debilitati, e con il passare del tempo io sentivo il mio corpo perdere inesorabilmente le forze.

Gli unici a ingrassare erano i pidocchi che infestavano noi e i nostri vestiti. Quando mi levavo la camicia me ne schiacciavo addosso a centinaia, e nel giro di mezz'ora ne spuntavano altri cento. Ti facevano ammattire.

Poco dopo il nostro arrivo, ci misero in fila e ci chiesero il nostro mestiere nella vita civile. L'interprete parlava un inglese approssimativo, e io ero ancora guardingo, così dissi che ero un topo d'appartamento. Lui studiò il suo elenco, visibilmente perplesso.«Cosa?» «Topo d'appartamento», ribadii. «Tipo d'appartamento?», disse lui, guardando il suo superiore con aria interrogativa. Quello rimase impassibile, così l'interprete annotò qualcosa sul suo foglio e passò al prigioniero successivo.

I pacchi della Croce Rossa erano una manna, anche se andavano divisi tra parecchi prigionieri. Potevano contenere latte in polvere il "Klim", milk scritto al contrario, un pizzico di caffè o di tè, verdura in scatola o una confezione di formaggio industriale, a volte uova essiccate, più una barretta di cioccolato, zucchero o uva.

La noia era devastante. Al campo non c'era alcuna disciplina militare. Eravamo abbandonati a noi stessi. Non avevamo posate per tagliare il pane, ma c'erano degli specchietti, e io trovai il modo di romperli in grosse schegge da utilizzare come lame. Aggiunsi un manico di legno, e ne ricavi dei coltelli decenti che scambiai con un po' di cibo extra. L'economia del campo si reggeva sul baratto. Per sopravvivere dovevi avere qualcosa da scambiare. Nel corso dei mesi mi ingegnai a costruire una specie di valigetta con i contenitori di Klim appiattiti. Dio solo sa perché. Non avevo nulla da metterci dentro, né stavo escogitando un audace piano di fuga. Schiacciavo i contenitori e poi ne ripiegavo i bordi in modo da incastrarli gli uni sugli altri per ottenere lamine più grandi da modellare in altre forme.

Era solo un passatempo per ammazzare le lunghe ore di inattività, e alla fine ne feci una sorta di scatola di latta.

Anche quando la Croce Rossa ci riforniva di tè e caffè, bollire l'acqua non era impresa facile. Decisi di improvvisare, e costruii un cilindro chiuso con all'interno delle pale da ventilatore che giravano, come la ruota di un criceto sigillata. Poi, con un tubo, collegai il cilindro a un contenitore di metallo pieno di braci, le attizzai e attivai la ventola, ottenendo una specie di altoforno in miniatura. Le braci diventavano incandescenti e, sistemando una gavetta in cima al cilindro, l'acqua bolliva subito. Andavo fierissimo della mia invenzione, e per la prima volta riuscimmo a prepararci un tè caldo. Alcuni compagni perfezionarono il tiraggio, e il marchingegno riscosse un enorme successo.

Oggi credo che gli italiani ci facessero patire la fame semplicemente perché non avevano cibo da darci. I soldati semplici che facevano le guardie non mangiavano molto più di noi. Accettavano come moneta di scambio persino le nostre foglie di tè usate.

Io mi sentivo ancora avvilito per essermi lasciato catturare. Non mi fidavo di nessuno, e me ne stavo quasi sempre per conto mio. Ma un paio di prigionieri li ricordo. C'era un cockney (tipici abitanti di Londra, n.d.t.) di nome Partridge che faceva favori a tutti senza chiedere niente in cambio. E un altro, un certo Bouchard, magro come uno scheletro, che stava letteralmente morendo d'inedia. Passava le giornate a perlustrare il campo, in cerca di avanzi da mangiare. A volte scambiammo qualche parola, ma non parlammo mai della nostra vita a casa. Perché torturarsi?

In seguito venni a sapere che ad alcuni prigionieri di altri campi era capitato di essere portati fuori per la disinfestazione dai parassiti e, vedendoli sfilare per la strada, i passanti li avevano accolti con insulti e sputi. Quanto a noi, non mettemmo mai il naso fuori del campo. Di tanto in tanto si presentava un prete cattolico, e celebrava la messa per i credenti. Ma anche il rito avveniva di là dal filo spinato. Il sacerdote non si azzardò mai a superarlo.

Ci ingegnammo in ogni modo per combattere la noia. Chiunque fosse esperto di un argomento faceva lezione agli altri. Le materie di insegnamento spaziavano dalla storia alla geografia all'ingegneria. Un compagno parlava per ore del suo tornio, e di come si lavorano e si tagliano legno e metallo.

Dopo un po' cominciarono a sorgere nuove baracche; le nostre erano già sovraffollate, e bisognava allargare il campo. Di solito durante la prigionia in Italia non eravamo costretti ai lavori forzati, ma quando ci offrirono 150 grammi di pane in più al giorno per partecipare alla costruzione accettammo. La situazione dei viveri era catastrofica.

Le baracche che costruimmo si trovavano fuori del perimetro. Il piano era di completarle e solo in seguito estendere la staccionata per includerle.

Fare un passo oltre il filo spinato era già un'emozione. C'era sempre la possibilità di rubare qualcosa da mangiare, o di evadere.

Insieme ad altri cinque compagni fui mandato su un tetto a fissare le tegole con il cemento. Per la prima volta potevo vedere il territorio circostante. C'era una sola guardia a tenerci d'occhio, ed era rimasta a terra. La fame mi tormentava, e pensai che da evaso non poteva andarmi poi tanto peggio. Studiai la situazione, e infine chiesi alla guardia se potevo scendere per fare i miei bisogni. Controvoglia il soldato acconsentì, malgrado il rischio di perdermi di vista.

Appena svoltato l'angolo scappai a gambe levate.

Mi aspettavo da un momento all'altro che scoppiasse il finimondo, ma non accadde niente, e riuscii a mettere una certa distanza tra me e il campo prima di fermarmi a riprendere fiato. Non ho idea del momento in cui la guardia dette l'allarme: a quel punto io ero già lontano.

Avevo con me un tozzo di pane e un minuscolo pezzo di formaggio: non c'era stato il tempo di prendere altro. Decisi di evitare la costa e di dirigermi verso nord, con l'intento di raggiungere la neutrale Svizzera. Mi sforzavo di essere ottimista. Rispetto alla Grecia ero meno lontano da casa, ma si trattava comunque di superare centinaia di chilometri in territorio nemico.

Fu un déjà-vu della fuga precedente. Evitavo le strade e le zone abitate, e rubavo da mangiare nelle fattorie isolate. Non mi colsero mai con le mani nel sacco, ma nemmeno misi sotto i denti qualcosa di sostanzioso. Il meglio che riuscivo a trovare era un avanzo di verdura marcia e un ortaggio che sapeva di anice, probabilmente finocchio. Da allora non posso più vederlo. In tre o quattro giorni coprii una distanza notevole, ciò nonostante ero sempre più debole e affamato. Mi imbattei in un campo di grano non mietuto, però le spighe erano grigie, lasciate a marcire. L'Italia non era un luogo felice. Cominciò a piovere a dirotto.

Cercai riparo in un piccolo edificio abbandonato, aspettando che smettesse. Era già buio quando sentii delle grida dall'esterno. Il mio rifugio era stato circondato, e mi stavano ordinando di uscire. Mi avevano trovato.

Uscii allo scoperto. Ero angosciato. Nell'oscurità non riuscivo a distinguere quanti fossero i soldati, ma comunque non aveva importanza: mi avevano preso. Mi caricarono su un camion e mi portarono via. Non si presero la briga di legarmi le mani, né di picchiarmi. Mi riportarono in tutta fretta al campo, e passai un giorno e una notte in cella di punizione. Poi ripresi quel tremendo tran tran. Il tentativo di fuga era stato un gesto istintivo, un impulso nato dalla frustrazione. Adesso ero di nuovo in trappola, e avrei dovuto rassegnarmi.

Nel campo la dissenteria dilagava: non si trattava di un normale disturbo, bensì di una malattia vera e propria, sfiancante e potenzialmente letale, che ci toglieva le energie lasciandoci prostrati, apatici e doloranti. Eravamo tutti dimagriti, e in quell'epidemia generale capitavano incidenti imbarazzanti. Se ci si sporcava, riuscire a lavarsi era quasi impossibile, ecomunque ci si doveva accontentare dell'acqua fredda. Vidi dei compagni piangere per l'umiliazione, uomini adulti imbrattati come neonati. Per mancanza di cure, molti in quel campo morirono di malattie di solito non letali. Un cadavere restò per giorni in una baracca prima di venire seppellito. Lo ricordo perché ereditai i suoi pantaloni. I miei erano laceri e luridi, e il resto dell'uniforme era conciato anche peggio.

Fu un sollievo avere quei pantaloni, e non mi diedi pensiero che fossero appartenuti a un morto. Era una questione pratica. Con il passare dei giorni, però, cominciai a soffrire di un prurito terribile, e questa volta non si trattava dei soliti pidocchi. Sull'interno delle cosce mi spuntò un'irritazione, con arrossamenti gonfi e a chiazze, che si diffuse come un lampo all'inguine e Dio solo sa dove. Mi ero preso la scabbia. I minuscoli parassiti si erano intrufolati sottopelle, dove avevano deposto le uova. Mi grattai fino a sanguinare, malgrado sapessi che in quella sporcizia le ferite rischiavano di infettarsi. Durante il giorno riuscivo a trattenermi, però la notte sentivo la pelle in fiamme e brulicante di insetti.

Gli attacchi di dissenteria e la fame costante mi rendevano sempre più intorpidito, e dimagrivo a vista d'occhio. Se mi alzavo troppo bruscamente, svenivo e mi accasciavo a terra. Dopo un po' cominciai a farlo di proposito, nascosto dietro la baracca, per perdere i sensi. Così il tempo passava più in fretta. Quei momenti di incoscienza erano una tregua dalla fame, dai pidocchi e dalla piaga dei parassiti. Il supplizio della scabbia durò per settimane, forse per mesi. Non riuscii ad arginarlo finché al campo non arrivò una saponetta a base di acido fenico. Il mio corpo era in condizioni disastrose, ma nella mia testa non mi sentivo affatto un prigioniero. Il nemico mi aveva fatto molte cose, però non era riuscito a catturare la mia mente.

Quell'anno in Italia fu un inferno. Molti ragazzi morirono di malattia e inedia. Quando arrivò la notizia che alcuni di noi sarebbero stati trasferiti pensai che peggio di così non poteva andare. Ero troppo debole per marciare fuori del campo. Con noi non c'erano ufficiali, né la minima traccia di disciplina militare. Il meglio che riuscimmo a fare fu trascinare lentamente il passo verso i camion. A uno svincolo ferroviario ci caricarono su carri bestiame. In giorni migliori avrei tagliato subito la corda, ma adesso faticavo a reggermi in piedi. Un cartello appeso al vagone diceva: «Capienza: quaranta uomini o dieci cavalli». C'era un unico secchio per tutti. Io cercai di tenermene il più alla larga possibile. Tanti compagni soffrivano ancora di dissenteria. Mi lasciai cadere in un angolo, felice di avere trovato un posto sotto l'unica finestra del vagone. Era uno spiraglio di trenta centimetri, chiuso dal filo spinato. Lasciava filtrare aria e luce, e apriva un piccolo scorcio sul mondo che ci scorreva accanto. Era anche l'unico posto dove svuotare il secchio, che presto fu pieno fino all'orlo. Bisognava rimediare.

Un paio di ragazzi lo sollevarono fino alla finestrella, ma rovesciare un secchio traboccante di escrementi da un foro chiuso con il filo spinato e posto sopra la tua testa non era impresa facile. Il vento rigettò indietro buona parte del contenuto, che scese a rivoli lungo la parete alla quale ero appoggiato. Seguì uno scambio piuttosto animato. Lì dentro c'era tutta la merda del mondo, e io ci stavo seduto proprio sotto.

La razione di cibo consisteva nella solita galletta e in un contenitore d'acqua da dividere tra tutti. Non sapevamo dove ci stessero portando. Mentre il treno procedeva lentamente verso nord superando chilometri di spiagge deserte, vidi un cartello con su scritto: "Rimini". Ne avevo sentito parlare prima della guerra. Ci allontanammo dal mare, e attraversammo una serie di paesi dove la gente usciva di casa a salutare. Forse ci credevano italiani.