I nuovi migranti dai piedi leggeri

di MARCO DEMARCO

Una ricerca del sociologo Francesco Maria Pezzulli racconta la rivoluzione silenziosa dei giovani «Stufi di questa società castrante» Ecco perché abbandonano il Mezzogiorno. E perché non torneranno.

Perché vanno via? Perché i giovani laureati del Sud emigrano al Nord o all’estero? Finora hanno risposto gli analisti economici e i demografi. E hanno detto cose sensate, ma parziali. Sia gli uni che gli altri si sono occupati esclusivamente degli squilibri tra domanda e offerta di lavoro, arrivando a conclusioni diverse ma speculari. Con l’occhio alla domanda, gli economisti hanno così concluso: se ne vanno perché c’è poco lavoro. Guardando all’offerta, invece, gli esperti di flussi migratori hanno dedotto che se ne vanno perché sono troppi e non c’è spazio per tutti.

Ora prova a rispondere un giovane sociologo dell’università La Sapienza, uno di quelli a cui piacciono le ricerche empiriche e che dal 2004 al 2006 ha interrogato più di cinquecento «migranti». Ed ecco, senza neanche l’eco del piagnisteo sudista, il risultato: se ne vanno perché non ne possono più. Non ne possono più delle famiglie e del familismo amorale; non ne possono più del clientelismo e del sistema politico corrotto o compromesso; non ne possono più delle caste professionali, chiuse e immobili come ascensori bloccati tra un piano e l’altro. Non ne possono più dei corsi infiniti di formazione, dei concorsi fasulli, delle élites asfittiche più che ai tempi di Pareto.

Il giovane sociologo è Francesco Maria Pezzulli e il frutto della sua ricerca è un libro, In fuga dal Sud, edito da Bevivino, che sarà presentato questo pomeriggio, nell’ambito degli incontri nel parco Old Calabria. A voler usare il linguaggio accademico di Edith Pichler, che della pubblicazione ha curato la prefazione, la tesi del libro suona così: «Le migrazioni meridionali qualificate dipendono dallo scarto esistente tra soggettività dei migranti, in continua crescita, e le reti sociali e professionali nelle quali sono coinvolti nei contesti di provenienza, sostanzialmente arretrate». Ma con meno giri di parole il senso è quello di cui sopra.

Tra il 1997 e il 2008 circa 700 mila meridionali hanno preso un aereo o un treno per trasferirsi altrove. Nel solo 2008 il Sud ha perso oltre 122 mila residenti. Tra questi, molti lo hanno fatto per un’unica ragione: dire basta ai Remo Gaspari di oggi, ai Mastella e ai De Mita; o ai governatori regionali alla Bassolino e alla Loiero, incapaci di limitare il panpoliticismo; o, anche, alla mamma e al papà che devono sbattersi tra cene e vernissage in cerca di un santo in paradiso. Sono andati in cerca di un altro mondo, molto meno angusto di quello meridionale. Un mondo, per intenderci, dove se parli di merito non fai scattare l’allarme antincendio. «La mia più grande soddisfazione? Trovare clienti non per il cognome che ho, non per le relazioni familiari, ma per la professionalità che offro».

Questi ragazzi sono i nostri luftmenschafte, come li definisce George Steiner. Sono gli «uomini dai piedi leggeri», i nuovi cosmopoliti. Francesco Saverio Nitti li chiamava invece «gli spostati» e oltre un secolo fa li vedeva come il «peggior pericolo per l’Italia». Fino a quando non troveranno un lavoro o un guadagno sicuro, diceva Nitti, questi giovani «non potranno fare a meno di coltivare le loro velleità rivoluzionarie».

Gli «spostati» di oggi sono apparentemente meno pericolosi, eppure la loro rivoluzione, seppur silenziosa, non è meno dirompente. Come ancora domenica testimoniava Franco La Cecla sul Sole 24 ore, del resto, questi ragazzi hanno scoperto che «le complicazioni burocratiche, il clima fatiscente e ricattatorio dell’università italiana e lo strangolamento delle potenzialità giovanili» sono una malattia ormai cronica. E allora lo scossone provocato dal loro lucido e consapevole distacco non potrà essere privo di conseguenze. Tanto per dirne una, chi troppo frettolosamente parla di un Sud lamentoso e acquiescente, furbo e compromesso, dovrebbe cominciare a riconsiderare questo straordinario fenomeno sociale.

È impressionante, a leggere il libro, mettere in fila il modo in cui gli intervistati descrivono il contesto di provenienza: «Mi innervosiva», «cominciava ad ammorbarmi», «un orizzonte chiuso, claustrofobico, insopportabile», «arrogante e incivile», «odioso, deprimente, castrante». E ciò spiega, dice l’autore, la prima differenza tra questa emigrazione e quella di un secolo fa. Rispetto ai loro nonni, i nipoti partono «senza alcun rancore». Il che vuol dire anche, ed ecco una seconda differenza, che quest’ultima generazione di migranti non ha alcuna intenzione di tornare. «Il rischio di impantanamento sarebbe molto elevato», confessa un ricercatore felicemente approdato in una università americana. Rientrare? «Soltanto se la mia famiglia avesse necessità della mia presenza», è la risposta più frequente.

Malinconici? Mammisti? Languidamente distesi al sole a discettare di pensiero meridiano? Macché. Questi meridionali dai piedi leggeri sono rivoluzionari di altri tempi. Altro che Masaniello, altro che Pisacane o Eleonora Pimentel Fonseca. Questi, almeno, non faranno una brutta fine.

 

Corriere del Mezzogiorno Bari 5 agosto 2010