La radio che sentì il Sud

dolci

Danilo Dolci 

di Luigi Mascilli Migliorini

 La «radio dei poveri cristi», una radio – racconterà poi il suo ideatore, Danilo Dolci – «piccola come in montagna per la resistenza, oppure a Praga», nacque, e morì, il 25 marzo 1970. Sono, dunque, passati poco più di quarant’anni da quello che è stato definito un punto di non ritorno nella storia della comunicazione in Italia, la prima rottura del monopolio di Stato sulle trasmissioni via etere, eppure in pochi hanno approfittato dell’occasione per ricordare non solo "Radio Libera Partinico", ma una straordinaria figura civile nell’Italia del dopoguerra.

Di questa Italia ne parliamo troppo spesso come dell’Italia del boom, ne esaltiamo – come è giusto – lo sviluppo economico inatteso e impetuoso, il miglioramento diffuso nelle condizioni e negli stili di vita, le nuove libertà. Non siamo, però, altrettanto tempestivi nel ricordarci di un’altra Italia, quella che negli stessi anni faticosamente conquistava i propri diritti sociali, quella che , invocando una «Costituzione inattuata» puntava il dito sui ritardi e le incompiutezze della democrazia repubblicana, quella che si sottraeva alla penosa continuità di una proprietà agraria quasi feudale riprendendo, come i padri, il cammino dell’emigrazione.

Di questa altra Italia Danilo Dolci fu testimone e alfiere infaticabile.Ne sostenne le lotte per il lavoro, e si inventò gli «scioperi alla rovescia» nei quali gli scioperanti rimettevano in sesto trazzere, vecchie strade di campagna lasciate in colpevole abbandono dai poteri pubblici. Ne favorì lo sviluppo culturale, promuovendo tra i contadini siciliani forme di auto e mutua educazione, «maieutiche» come gli piaceva dire. Ne raccolse le parole dolenti come si legge in Banditi a Partitico o nei Racconti siciliani, usciti agli inizi degli anni Sessanta e che Sellerio ha da poco ripubblicato.Pagine in cui Dolci raccolse racconti di vita, racconti di sé della povera gente delle campagne e delle città dell’isola. Era "l’inchiesta", come talvolta la praticava qualche giornalista, come la concepivano allora Carlo Levi, Rocco Scotellaro, Ernesto De Martino: restituzione, in primo luogo, di parola a universi resi muti dalla propria condizione materiale, che diventava denuncia non per preliminare scelta politica, ma perché la voce ritrovata raccontava di cose e di coscienze che non potevano non aprire contraddizioni immediate nell’orizzonte rassicurante dell’Italia ufficiale.

Fu quella, come si sa, una grande stagione dell’«andata al Sud», nella quale intellettuali come lo stesso Dolci, che era nato a Sesana in provincia di Trieste, ritrovavano nel Mezzogiorno e nei suoi problemi ragioni di autenticità personale e di senso del proprio impegno civile. Ma non era solo Mezzogiorno, anche se del meridionalismo del secondo dopoguerra sarà sempre utile ricordare la commistione di esperienze non solo meridionali e l’inquietudine etica ancor prima che sociale di chi se ne fece protagonista. Accanto a tanti amici italiani Dolci e il suo lavoro interessarono molto uomini come Bertrand Russell e Jean-Paul Sartre. E c’è da riflettere su questa attenzione che, al di là del nostro paese, lascia scorgere un’Europa, un mondo che la guerra fredda non divise lungo un muro di rigide fedeltà. Sinuosa e insoddisfatta la linea di demarcazione corre negli anni Cinquanta (e ancor più, ovviamente, nei Sessanta) invadendo di continuo i campi opposti ponendo a entrambi dubbi e questioni.

L’esempio di Danilo Dolci è, in questo senso, evidente. A distanza,infatti, di oltre mezzo secolo non è difficile osservare quanto le condizioni di quel Mezzogiorno povero e ruvido siano totalmente cambiate anche in virtù di quello sviluppo economico contro il quale si levava la sua denuncia civile. E, tuttavia, le forme di questo mutamento, gli irrisolti problemi di classi subalterne che hanno attraversato la modernizzazione senza sviluppo danno ancora ragione alle battaglie di Dolci. Così per tutte quella radio durata appena ventisette ore e sorta, non a caso, a ridosso del terremoto del Belice, a denunciare sprechi, corruzioni, ritardi che non hanno ancora abbandonato l’Italia delle catastrofi naturali e delle tragedie umane. Come non si è scrollata di dosso, l’Italia del benessere, la mafia che colpisce Peppino Impastato quando con la sua "Radio Aut" prova, qualche anno più tardi a riprendere il testimone della Radio Libera di Partinico.

Quella radio, del resto, Dolci l’aveva concepita come un modo moderno per proseguire, nelle nuove condizioni degli anni Settanta, le lotte per una democrazia compiuta inaugurate al suo arrivo in Sicilia. Come spiegherà egli stesso, la nuova epoca delle comunicazioni di massa chiedeva che gli strumenti del comunicare non determinassero una condizione di fruizione unilaterale, ma si facessero occasione di esperienze collettive nelle quali si producesse una tendenziale sovrapposizione, uno scambio permanente tra emittente e fruitore. Le radio di quartiere, ad esempio, che Dolci tenne in qualche modo a battesimo e che oggi ricordiamo forse come artigianali esperienze di un volontariato naif mentre gli streaming, i blog su Internet ce ne rimandano tutta la forza profetica.

Dolci, «Banditi a Partitico», prefazione di Norberto Bobbio, postfazione di Paolo Varvaro, Palermo, Sellerio, pagg. 434,

Dolci, «Racconti siciliani», con uno scritto di Carlo Levi, postfazione di Giuseppe Barone, Palermo, Sellerio, pagg. 418.

Domenica, Il Sole 24 ore 12 settembre 2010