Tra i mali del Su Gramsci trascurò la Mafia

la_questione_meridionale
di Luigi Grassia
Il problema del Sud è il problema di tutta l’Italia, della sua unificazione imperfetta; se al Nord il blocco di potere di Giolitti ha puntato sull’industria e ha cercato di includere gli operai nel sistema, al Sud le classi popolari sono state abbandonate dallo Stato all’abbrutimento e alla repressione di Crispi. Il ceto dominante meridionale anziché tentare la via dello sviluppo economico si è compiaciuto del ruolo di mantenere l’ordine nelle campagne e fra le plebi urbane. Gramsci non concede spazio all’interpretazione «coloniale» di un rapporto Nord-Sud fondato sul puro e semplice sfruttamento: «La classe dominante siciliana ha partecipato alla direzione dello Stato nella stessa misura di quella piemontese». Gli eredi di Cavour e quelli dei gattopardi hanno collaborato. Perciò Gramsci parla in un passo di «questo Paese giovanissimo e vecchissimo», e in un altro di «uno Stato bastardo». E non ne siamo ancora usciti.
Antonio Gramsci era una lettura scontata una generazione fa. E la fama dell’autore non è venuta meno, anzi nel XXI secolo tutti lo citano con sussiego. Ma quanti lo leggono davvero? Va a finire che gli scritti gramsciani su La questione meridionale ora riproposti da Nando dalla Chiesa possono quasi assumere il valore (paradossale) di una novità per molti lettori. Gramsci è sempre attuale, però dalla Chiesa ne sottolinea una vistosa (e persino misteriosa) carenza su un punto specifico: perché Gramsci, trattando dei mali del Sud Italia, quasi non parla del ruolo nefasto delle mafie? Solo in una lettera dal carcere, e come se parlasse di folklore, scrive di assistere dietro le sbarre a «un’accademia di scherma del coltello secondo le regole degli stati della malavita meridionale: lo Stato Siciliano, lo Stato Calabrese, lo Stato Pugliese, lo Stato Napoletano».
Ma poi non sviluppa l’osservazione in un’analisi organica. Eppure il nesso fra la criminalità organizzata e la politica era già ben noto e studiato (Salvemini, Colajanni, Mosca). Invece Gramsci snobba questo soggetto. Come mai? Si possono fare varie ipotesi, per esempio che una certa efficacia (temporanea) della repressione poliziesca da parte del fascismo abbia portato Antonio Gramsci a ritenere le mafie avviate al declino, e quindi a sminuirne l’importanzasul piano analitico. Ma il punto interrogativo resta. Se Gramsci figura fra i meridionalisti meno sensibili al ruolo dei «poteri criminali», mette invece il dito nelle altre piaghe del Mezzogiorno, all’origine dei suoi problemi antichi e attuali: il prevalere della mentalità della rendita (una volta agraria, oggi incentrata
sul privilegio del «posto», sull’appropriazione privata delle risorse pubbliche, sulla speculazione
edilizia); il particolarismo che degenera nel «familismo amorale»; il basso livello di partecipazione socio-culturale; e la generale mancanza di opportunità che asfissia la società. «Il Mezzogiorno può essere definito una grande disgregazione sociale» denuncia Gramsci, ma il problema del Sud è il problema di tutta l’Italia, della sua unificazione imperfetta; se al Nord il blocco di potere di Giolitti ha puntato sull’industria e ha cercato di includere gli operai nel sistema, al Sud le classi popolari sono state abbandonate dallo Stato all’abbrutimento e alla repressione di Crispi. Il ceto dominante meridionale anziché tentare la via dello sviluppo economico si è compiaciuto del ruolo di mantenere l’ordine nelle campagne e fra le plebi urbane. Gramsci non concede spazio all’interpretazione «coloniale» di un rapporto Nord-Sud fondato sul puro e semplice sfruttamento: «La classe dominante siciliana ha partecipato alla direzione dello Stato nella stessa misura di quella piemontese». Gli eredi di Cavour e quelli dei gattopardi hanno collaborato. Perciò Gramsci parla in un passo di «questo Paese giovanissimo e vecchissimo», e in un altro di «uno Stato
bastardo». E non ne siamo ancora usciti.
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