Napoli, lo sfratto della cultura

di Carlo Vulpio

marotta

Eravamo venuti a trovare Gerardo Marotta, un giovanotto di 89 anni travestito da vecchietto inerme, intabarrato in un nero cappotto e sovrastato da un nero cappello a falde larghe, che in realtà sono la sua uniforme da combattimento, per parlare con lui dell’ennesimo delitto italiano nei confronti dei libri, e ci siamo ritrovati ad ascoltare una storia che racconta non soltanto di libri depositati in sotterranei e magazzini industriali come materiale di scarto — questo è il delitto visibile —, ma narra di un «genocidio culturale», e questo è il delitto invisibile, i cui effetti i popoli sconteranno negli anni a venire. «Esattamente ciò che è accaduto — dice Marotta a “la Lettura” —, a Napoli e al Sud, e quindi all’Italia, dalla bestiale repressione seguita alla Rivoluzione napoletana del 1799 fino ai giorni nostri».

Marotta, di professione avvocato, è in realtà un filosofo. Che a un certo punto della vita, a causa della passione per la filosofia e per la storia, è finito tra le braccia di Enrico Cerulli, presidente dell’Accademia dei Lincei, di Giovanni Pugliese Carratelli, direttore della Scuola Normale di Pisa, e di Elena Croce, figlia del grande Benedetto. I quali, era il 1975, lo puntarono, lo scelsero e gli dissero: caro Marotta, lei, da subito, dev’essere il presidente dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici che avrà sede a Napoli. «Io non mi sentivo pronto, e chiesi di concedermi almeno un anno di tempo per pensarci — racconta Marotta —. Loro però furono inflessibili. Ma allora, mi disse Elena, lei non ha letto La fine della civiltà di mio padre! Risposi che sì, certo che lo avevo letto, era nel volume Filosofia e Storiografia, come pure avevo letto Karl Jaspers, Edmund Husserl, Rabindranath Tagore, che dicevano le stesse cose di Benedetto Croce. E allora cosa aspettiamo, mi dissero, noi sappiamo solo studiare, è lei la persona giusta per l’Istituto». Croce in quel saggio preconizzava la fine della civiltà in seguito alla «instaurazione della barbarie… che distrugge monumenti di bellezza, sistemi di pensieri, chiudendo scuole, disperdendo o bruciando musei e biblioteche e archivi e facendo altre simili cose… di ciò gli esempi non occorre cercarli nelle storie remote, perché le offrono quelle dei giorni nostri…».

La storia dei giorni nostri, quella visibile, è lo sfratto dei libri dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, in tutto trecentomila volumi — rari, preziosi, aggiornati, completi — dalla sede storica dell’Istituto, il settecentesco Palazzo ducale Serra di Cassano, sul promontorio di Pizzofalcone, da dove si gode una magica e sciagurata vista sul Golfo, su Posillipo e sulla mostruosa colata di cemento che ammazza Napoli. L’Istituto, unanimemente considerato una grande accademia internazionale come quelle di Londra, Vienna, Weimar, San Pietroburgo (anzi, per l’Unesco «un’esperienza che non ha eguali al mondo»), non riceve da anni, a causa di indiscriminati tagli alla spesa e di colpevoli ritardi burocratici, i finanziamenti pubblici previsti e così langue tra i debiti, nonostante l’estremo atto d’amore di Marotta, che per salvare l’Istituto ha venduto tutte le sue proprietà e ha riempito casa sua di tutti i libri che poteva salvare dal naufragio. Appelli dei soliti noti, un po’ di lacrime di coccodrillo, discorsi magniloquenti, e poi arriva l’ufficiale giudiziario e i libri vengono inscatolati e trasportati nei sotterranei umidi dello stesso Palazzo Serra di Cassano, in un capannone industriale di Casoria, nell’ex manicomio «Leonardo Bianchi» e nell’Istituto professionale per ciechi «Colosimo», così, dove capita, capita, basta che ci sia un po’ di spazio per sistemarli «provvisoriamente».

L’altra storia, quella invisibile, i cui effetti si manifestano nel corso delle generazioni, come le piaghe di un contagio contratto molto tempo prima, persino prima di nascere, e trasmesso «geneticamente», ha il suo nocciolo duro in quel «genocidio culturale» di cui parla Marotta. Una pulizia etnica di intellettuali, liberi pensatori, uomini e donne di cultura, che a Napoli, capitale del Regno, comincia il 20 agosto 1799 con la prima esecuzione di massa dopo la fine della Repubblica Napoletana, in piazza del Mercato, e prosegue con la caccia e gli assassinii, casa per casa, ordinati dal re Ferdinando IV. Il quale non fu il primo e non sarebbe stato l’ultimo a capire che quando la cultura diventa il più formidabile ostacolo del potere, va eliminata. A Napoli, lo avevano già fatto i D’Angiò succeduti a Federico II di Svevia, che distrussero l’università, e lo avrebbe fatto, nel 1848, il successore di Ferdinando IV, un altro Borbone, con la sistematica persecuzione degli intellettuali. In entrambe le circostanze, pur a distanza di alcune centinaia di anni, «l’antidoto» fu lo stesso: la nascita delle accademie.

«Se non si comprendono questi avvenimenti, non solo non si capisce nulla, ma non si coglie la ragione profonda ed essenziale che portò anche noi a creare un’accademia», dice Marotta, mentre sottolinea la «povertà» dei libri di storia adottati nelle scuole italiane, che liquidano il 1799 napoletano in poche righe. Marotta e i suoi compagni di strada, tra i quali va ricordato il grande matematico Renato Caccioppoli, che era pure suo cognato, erano chiamati «gli hegeliani di Napoli» per l’importanza che attribuivano alla funzione dello Stato e per lo scetticismo sulle innate virtù della «società civile». Questo gruppo di giovani raccoglie l’esortazione del grande storico Adolfo Omodeo — che nel 1943, nel pieno del conflitto mondiale, esorta a «formare associazioni culturali per impedire il ritorno della vecchia classe dirigente che con Vittorio Emanuele III ha portato il Paese in guerra e firmato le leggi razziali» — e fonda l’associazione «Cultura Nuova», e poi il «Gruppo Gramsci». Ma, racconta Marotta, «i partiti, e proprio il Pci, ci fermarono subito: non dovete fare cultura, ci dissero, ma solo discorsi politici».

Cambiano i protagonisti e il contesto, ma la cultura libera, critica (altrimenti, che cultura è?) ritorna a essere il nemico da combattere. Accade quando l’Istituto per gli Studi Filosofici comincia ad affermarsi e si ritrova contro proprio il mondo universitario, e non solo quello napoletano. Chissà, forse in molti temevano che si ripetesse ciò che avvenne con l’arrivo di Giuseppe Garibaldi, che giudicava l’università di Napoli una delle peggiori e sostituì il corpo docente con i membri dell’accademia scacciati dai Borbone, tra i quali Francesco De Sanctis, Vittorio Imbriani, Francesco Fiorentino e altri grandi studiosi. «Eppure noi abbiamo sempre sostenuto che la convivenza tra accademia e università non solo è possibile, ma è anche proficua», dice Marotta, che con l’Istituto (specialmente quando il presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, nel 1994, risolve il problema dei finanziamenti) realizza il sogno di «irradiare cultura» da Napoli in tutta l’Europa e verso il resto del mondo, e per questo miete successi e riconoscimenti dovunque, collezionando così tante lauree ad honorem che nemmeno le ricorda tutte. E stringendo legami con i più bei nomi della cultura internazionale, come Hans-George Gadamer, Jean Starobinski, Karl Popper, Carlo Rubbia, Ilya Prigogine, Eugenio Garin, Jürgen Habermas, Renato Dulbecco, Jacques Derrida, che assieme a tanti altri non meno autorevoli diventano i docenti dei seminari, delle scuole di alta formazione e degli incontri organizzati dall’Istituto napoletano. E che condividono con Marotta due idee: una Europa unita attraverso la cultura, prima che con la moneta, e l’introduzione dell’insegnamento della filosofia nelle scuole di tutti i Paesi europei (la filosofia in Germania è facoltativa, in Spagna e in Francia è stata abolita e in Inghilterra non è mai stata introdotta).

È lungo l’elenco degli aderenti all’«Appello per l’Europa» e all’«Appello per la Filosofia» concepiti da Marotta. Ma su uno di loro vale la pena di soffermarsi. François Mitterrand, presidente della Repubblica francese, quando si trattò di celebrare il bicentenario della Rivoluzione del 1789 pretese che nel programma fosse inserita la Rivoluzione napoletana del 1799, perché, disse, senza di questa non si sarebbero capiti bene i limiti di quella. «Telefonate a Marotta — disse Mitterrand — e chiedetegli di portare anche a Marsiglia, la città simbolo della Rivoluzione, la mostra che ha allestito sul Novantanove napoletano». E poi venne a trovarlo a Napoli, all’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, dove gli consegnò tutti i suoi discorsi e firmò gli appelli per l’Europa e per la Filosofia, affinché fosse l’homo philosophicus e non soltanto l’homo oeconomicus a decidere le sorti dell’Europa. Unita.

La Lettura, 1 Maggio 2016