Sud, c’è anche una «questione» politico-elettorale

di Giuseppe Galasso

«Il sorprendente dibattito della scorsa estate sul Mezzogiorno si è risolto, anche stavolta, con la concessione di risorse». Così Luca Bianchi e Giuseppe Provenzano in un saggio ( Ma il cielo è sempre più su?, ed. Castelevecchi-Tazebao), che reca evidenti i segni della loro ben nota competenza in materia meridionale. Anche per noi quel dibattito è stato sorprendente, ma non tanto per le risorse che avrebbero dovuto andare a tutto il Sud e sono, invece, andate solo alla Sicilia, come notano i due autori, quanto per il fatto stesso che quel dibattito ci sia stato. A stare a quanto si diceva fino a qualche tempo fa, di Mezzogiorno era inutile o impossibile parlare: o perché si trattava di una causa disperata e senza costrutto e prospettiva; o perché si trattava di una questione obsoleta; o, addirittura, perché il Mezzogiorno era diverso da ciò che se ne diceva, per cui si richiedeva «un nuovo racconto del Sud»; o perché, secondo alcuni, il Sud aveva ormai imboccato la sua strada di sviluppo; o perché il Mezzogiorno non aveva più voci sue che si facessero sentire a livello nazionale con autorevolezza determinante; o ancora per altri maggiori o minori motivi. Invece, poi, se ne è parlato in quel «sorprendente dibattito» come di cosa grave e urgente, che imponeva qualche sforzo di intervento nazionale. Sorprendente che, dopo tutto ciò, ci sia stato quel dibattito, ma, oltre alla concessione di risorse e alla loro destinazione, qualcosa d’altro ne va notato. E, cioè, che il segno che esso ha lasciato non diciamo nell’opinione pubblica, ma anche solo nei ben più ristretti ambienti dei politici militanti è stato scarso. Né vogliamo parlare degli ambienti intellettuali. Si ponga mente, ad esempio, e tanto per dirne una, al recente libro di Luca Ricolfi sul sacco del Nord da parte del Mezzogiorno. Un libro discutibile, e che noi, per parte nostra abbiamo discusso molto recentemente proprio in questa sede, ma, certamente, un libro meritevole di attenta considerazione. Ebbene, se ne è parlato molto più al Sud che al Nord, nonostante che fin dal titolo, volutamente paradossale, vi si evochi l’ombra di un Nord assediato e sfruttato dal Sud, che avrebbe dovuto solleticare le amplissime e diffusissime sensibilità settentrionali su questo tema.

La campagna elettorale in corso dimostra ciò in modo evidente. Certo, ora il Sud ricorre più o meno in moltissimi discorsi elettorali, ma non si fa alcuna fatica a ravvisare in ciò l’assolvimento di un obbligo conformistico, di rito, una specie di giaculatoria che è necessario recitare in ogni orazione elettorale o, comunque, politica. Dato che, bene o male, il tema meridionalistico è tornato di una certa attualità (e poi la ricorrenza del 150˚ anniversario dell’unità nazionale obbliga, in qualche modo, nello stesso senso).

Si può, inoltre, osservare anche di più. Non è sorprendente (per stare al termine con cui abbiamo cominciato) che nessuno dei candidati alla presidenza delle giunte regionali del Mezzogiorno da eleggere il 28 marzo abbia pronunciato una sola parola che vada al di là dei confini regionali e adombri una visione del più generale contesto meridionale, fuori del quale è piuttosto difficile pensare seriamente e in una prospettiva conveniente ai problemi di ciascuna delle regioni interessate? E forse anche questo può rispondere alla domanda che Luca e Bianchi si pongono in un capitolo del loro libro: «La questione politica e il “Mezzogiorno elettorale”», chiedendosi se al Sud si vincano o si perdano elezioni allo stesso modo che al Nord.

Bianchi e Provenzano trovano, peraltro, che il Mezzogiorno e i suoi fallimenti sono «una vicenda opaca di classi dirigenti inadeguate», che o hanno plasmato a propria immagine la società che avrebbero dovuto guidare e trasformare o si sono esse plasmate sullo stampo di una tale società. Le due cose non sono alternative. Anzi. Ma anche qui bisogna ripetere che un esame delle cose del Mezzogiorno condotto all’interno e dall’interno della società meridionale ci dice moltissimo, ma è, alla resa ultima dei conti, insufficiente, e perfino fuorviante. Nella storia dell’Italia unita in nessun momento il Mezzogiorno è vissuto chiuso e isolato nel suo bozzolo. Sempre ha fatto parte del più ampio contesto italiano, e non si spiegherebbe il Mezzogiorno senza questo contesto, così come non si spiegherebbe il contesto nazionale senza il Mezzogiorno. E ciò nel bene e nel male, e condividendo senz’altro la conclusione di Bianchi e Provenzano che da noi «il cambiamento non può che partire da una nuova autocoscienza del Sud».

Beninteso, questa non è un'assurda e vile chiamata di correo. È solo necessario perché la discussione sul Mezzogiorno abbia le sue vere basi, che da 150 anni sono le medesime basi dello Stato nazionale unitario. Ricordando ciò, e facendone il debito conto, diventa, del resto, anche più stringente l’analisi impietosa che la società meridionale e le classi dirigenti del Mezzogiorno (non solo la classe politica) ampiamente meritano.

Corriere del Mezzogiorno 14 marzo 2010