Nell’ultimo Sud di Levi, sempre in cerca di riscatto

di Carlo Vulpio


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Don Carlo arrivò qui al confino nel 1935. Oggi torna la questione meridionale

La casa che il regime fascista gli aveva assegnato stava in equilibrio precario sul più alto dei calanchi di Aliano, in Basilicata. Anzi, in Lucania, come nel 1933 decise di chiamarla Benito Mussolini. Don Carlo vi arrivò il 18 settembre 1935. Aveva un’espressione tranquilla e sicura, e se nutriva una qualche preoccupazione non la dava a vedere, diversamente da Cesare Pavese, che un mese prima era stato spedito a Brancaleone, alle pendici dell’Aspromonte.

A Pavese, il dolore di quell’esilio si leggeva in faccia. «A Carlo Levi no. Lui, al contrario di Pavese, la prese bene», dice Leonardo Sacco, 86 anni, storico, meridionalista, giornalista, autore di numerosi saggi e grande amico di Levi.

«Appena arrivato ad Aliano (che nel Cristo si è fermato a Eboli è chiamata Gagliano, ndr), don Carlo si diede subito animo — racconta Sacco —. In breve tempo, si procurò tutto il materiale occorrente per dipingere e per scrivere. E inviò lettere a tutti, alla madre, ad Alberto Moravia, a Mario Soldati e a mezzo mondo. "Sono un artista, devo dipingere e devo scrivere", disse Levi a don Luigi, il podestà del paese, e così da subito trasformò quel luogo di confino nel centro di gravità del nuovo meridionalismo».

Don Carlo, come lo chiamavano tutti e come a lui non dispiaceva essere chiamato, salì in fretta i quattordici gradini della scala esterna, raggiunse le tre stanze comunicanti in cui avrebbe abitato fino al 26 maggio 1936, diede un’occhiata al gabinetto ricavato in un angolo del pianerottolo e scalò gli altri quattordici gradini dell’altra scala esterna per salire sul terrazzo. La spettacolare vista della Valle dell’ Agri e di quelle creste d’argilla, i calanchi, che gli faranno immaginare il «paesaggio lunare» del Cristo, gli fece decidere in un attimo che ogni giorno, con il bel tempo, sarebbe salito lassù a dipingere i suoi quadri.

Aliano era, se possibile, ancora più remota e nascosta di Grassano, sempre in Basilicata, dove don Carlo era stato confinato un paio di mesi prima, quando lasciò il carcere romano di Regina Coeli. Il trasferimento fu deciso non per ragioni di cattiva condotta del confinato, ma perché don Carlo si incontrava di nascosto con sua cugina Paola Levi, che era diventata la sua amante. Paola era sposata con Adriano Olivetti — anche se ormai il matrimonio era naufragato— e questo, dice il rapporto di polizia, «è contrario agli indirizzi del governo fascista per la tutela della famiglia». Inevitabile far le valigie e via, andare.

Il medico-pittore-scrittore Carlo Levi non si scoraggia nemmeno questa volta. E nonostante Aliano «a prima vista, non sembra un paese, ma un piccolo insieme di casette, bianche, con una pretesa nella loro miseria», sarà proprio da Aliano e da quella casetta in cima ai calanchi che partirà l’onda lunga di un pensiero politico vivace, appassionato, profondo, anticipatore, che il fascismo si vedrà arrivare addosso come un boomerang e che nel dopoguerra animerà il nucleo meridionale del Partito d’Azione e una serie di giornali, saggi, riviste, iniziative politiche e sociali.

Tra queste ultime, spicca l’esperienza di «Comunità». Grazie ad Adriano Olivetti (che nel 1950 diventa presidente dell’ Inu, l’Istituto nazionale di urbanistica, e dell’ Unrra - Casas, l’organismo Onu di soccorso ai senzatetto), «Comunità» si presenta subito— il primo numero è del 1946, con un articolo di Ignazio Silone — non soltanto come una rivista prestigiosa, ma anche come un movimento politico-culturale e un programma di intervento concreto per il riscatto dei contadini meridionali.

Non è un caso che questa «primavera» sbocci proprio quando Carlo Levi torna in Basilicata.

È il 1946, maggio. Sono passati dieci anni da quando Levi ha lasciato Aliano. Sono stati appena pubblicati il

Cristo e Paura della libertà e don Carlo vuol tornare in Lucania, ma è trattenuto dal farlo. «Temeva di trovare una terra diversa da quella che aveva raccontato», dice Sacco. Alla fine, la nostalgia vince ed ecco don Carlo arrivare a Matera con una «Fiat Ardita», in compagnia di Manlio Rossi Doria e di un giornalista americano.

«L’accoglienza fu fredda — ricorda Sacco —. Gli rimproveravano di aver offeso la Lucania con il Cristo. Ma facemmo una campagna elettorale esaltante, per la Repubblica e per l’elezione di Levi all’Assemblea costituente». Don Carlo si candidò con Guido Dorso. Sapeva che non sarebbe stato eletto. Gli «azionisti» avevano poche possibilità contro partiti come Dc, Pci, Psi. E tuttavia non si risparmiò. Né si fece deprimere dalla fatica di viaggiare tra la polvere delle strade sterrate o dalla delusione di ritrovarsi a comiziare in piazze spesso semideserte. Poi, un giorno, don Carlo esprime il suo desiderio segreto. «Andiamo ad Aliano».

«Fu di pomeriggio — dice Sacco —, sotto un sole spietato. Carlo ce lo chiese, o meglio, ce lo ordinò all’improvviso». Arrivati all’ingresso del paese, Levi fece fermare l’auto e scese. Come la prima volta, rifece a piedi tutto il percorso fino alla casa in cui aveva vissuto da confinato politico. Solo che questa volta l’ex podestà don Luigi accolse don Carlo come un vecchio amico e addirittura lo abbracciò. Don Carlo non si sottrasse, anzi, se la rideva sornione. Aveva vinto. Stava dimostrando a tutti che il mondo — come spiegherà magistralmente qualche anno più tardi ne L’Orologio — era composto, più che di Borghesia e Proletariato, di Donluigini e Contadini: «I Donluigini hanno il numero, lo Stato, la Chiesa, i Partiti, il linguaggio politico, l’esercito, la Giustizia e le parole. I Contadini non hanno niente di tutto questo: non sanno neppure di esistere, di avere degli interessi comuni. Sono una grande forza che non si esprime, che non parla. Il problema è tutto qui».

Un «problema» che nel 1963 spinse Carlo Levi, che era stato contrario al Fronte popolare del 1948, a candidarsi come indipendente nel Pci. Questa volta però la scelta di Levi, che divenne senatore, disorientò i suoi amici. Tanto che Leonardo Sacco, che pure era più leviano di Levi, scrisse un articolo molto critico per «Il Mondo» di Mario Pannunzio, giornale con cui collaborava. Articolo che però, rivela oggi Sacco, non venne pubblicato. «Pannunzio mi disse che non potevamo fare uno sgarbo a Carlo». E allora Sacco lo pubblicherà qualche anno dopo nel libro Sindaci e ministri, edito ovviamente da «Comunità», con il titolo Don Carlo senatore. Levi capì, apprezzò e regalò un olio su tela, con dedica affettuosa, al suo grande amico Leonardo.

E la distinzione leviana tra Donluigini e Contadini? A invocarne la stringente attualità, oggi, è proprio un «don». Don Pietro Dilenge, parroco di Aliano dal 1973. E poiché Levi annovera tra i Donluigini «anche gli industriali e commercianti che si reggono sui miliardi dello Stato», don Pietro lo cita per parlare dei soldi pubblici destinati alla centrale a biomasse da 35 megawatt che la Gavazzi Green Power vorrebbe realizzare ad alcune centinaia di metri in linea d’aria da Aliano. Per funzionare, una centrale così dovrebbe bruciare quattrocentomila tonnellate all’anno di legna e di paglia, una «biomassa» che nemmeno i boschi e le stoppie dell’intera Lucania potrebbero mai garantire. Ma la paura è che quest’opera in realtà sia un inceneritore mascherato, che darà lavoro, forse, a non più di trenta persone. Proprio come il petrolio estratto in questi anni nella Val d’Agri.

Dice don Pietro: «I Donluigini di oggi sono le lobby che calano qui come lanzichenecchi. Comprano tutto e tutti, mentre la gente si adagia sull’assistenzialismo dei trenta denari di royalties ».

Intanto s’è fatto buio e giù, nella Val d’Agri, nell’area in cui dovrebbe sorgere la centrale, già da tempo decine di lampioni sprecano energia per illuminare il nulla durante tutta la notte, fino al giorno seguente. Dal terrazzo della casa di don Carlo la «questione meridionale» si vede ancora molto bene.

Corriere della Sera 9 maggio 2010