Un “cafone” in URSS

di Alberto Asor Rosa

Ai molti volumi dedicati all’URSS da viaggiatori italiani (scrittori, scienziati, giornalisti, o semplici turisti), se ne aggiunge ora uno di Tommaso Fiore, Al paese di Utopia (Leonardo da Vinci, Bari 1958), che si fa leggere con interesse e piacevolezza, per una sua qualità (che del resto è permanente nell’autore) di precisione e di gusto insieme. Tommaso Fiore non ha bisogno di presentazioni ai lettori di M.O. Un popolo di formiche e Un cafone all'inferno sono testi classici della nostra letteratura meridionalista, sono, vorremmo aggiungere, prove di forza di una intelligenza bene educata e soprattutto di una solida coscienza socialista.

Le ricordiamo, perché a nostro giudizio la novità e la validità di questa sua nuova opera non possono essere intese se si prescinde da ciò che Fiore è stato, da ciò che Fiore è nel quadro della problematica meridionalista. Il Fiore che guarda Mosca con occhi ingenui ma penetranti, con profonda umanità e ineguagliabile bonomia, ha portato con sé dalla sua terra infelice e tormentata le caratteristiche migliori che lo contraddistinguono: è l’uomo del Sud, che penetra con un’antica esperienza e un ardore sempre vivo, in quel mondo nuovo, che è l’URSS, e sa perciò apprezzarlo nei suoi aspetti positivi e ridimensionarlo in quelli negativi, con maggiore equilibrio forse di quello concesso ad uomini più superficiali, più politici o più letterati, e certo meno «umani», meno legati ai problemi della terra e del lavoro. Forse la più appropriata definizione di Fiore è quella che lo scrittore La Cava dà nel libro durante una conversazione: «Tu sei un poeta!» ...; si potrà cominciare proprio da questo spiraglio a capire che il libro non ha valore solo come «documento» (del resto validissimo), ma soprattutto come «interpretazione»: con quanto di poetico e quasi di rapsodico c’è sempre nelle interpretazioni del nostro scrittore. Ed è chiaro (non poteva essere altrimenti) che l’occhio del viaggiatore è fisso quasi sempre sui fatti umani, sugli individui, sui rapporti fra uomo e uomo, o, quando protagoniste sono le masse, sul significato liberatore - e quindi umanistico - che le loro manifestazioni possono avere. Assai bello, proprio a questo proposito, è il capitolo Mir i drusba (Pace e amicizia). Ma il libro non ha solo il pregio di narrare l’incontro di un uomo - di un socialista - con il mondo sovietico. Esso è assai più ricco di annotazioni umane, politiche, psicologiche e morali perché tale incontro avviene in circostanze particolarmente eccezionali: durante il Festival mondiale della Gioventù, svoltosi a Mosca nell’estate del 1957. Migliaia e migliaia di giovani, convenuti da ogni parte del globo; e fra essi centinaia e centinaia di italiani. Fiore ha modo perciò di cogliere i mille aspetti di questo incontro-scontro di civiltà, di gusti, di modi di pensare, di temperamenti; e non poche delle migliori pagine del libro sono dedicate alle reazioni suscitate dall’esperienza sovietica in questa massa di giovani. E molto spesso ci si accorge che lo sguardo dello scrittore non è meno acuto nei confronti degli ospitati che degli ospitanti. Magistrali, a esempio, le pagine dedicate agli italiani (giovani o no ...), alcune delle quali degne di entrare in un’ideale galleria di caratteri di nostri compatrioti. Gli aspetti politici, economici e sociali dell’URSS sono invece trattati in maniera più sfumata e secondaria: del resto, e l’occasione e la brevità relativa del soggiorno non potevano permettere un’analisi eccezionalmente approfondita in questa direzione. Non è da credere però che l’autore vi trascorra sopra con indifferenza: significativi sono gli sforzi da lui compiuti per tentare una chiarificazione reciproca sui fatti di Ungheria e sui problemi di socialismo e libertà anche se una certa ritrosia dei sovietici a impegnarsi su questioni troppo generali ha impedito che da tali conversazioni si potessero acquisire elementi diversi da quelli già noti.

 

«Mondo Operaio», anno XI n. 11-12, novembre-dicembre 1958, p. 63, nella rubrica Critica.