I l 29 agosto del 1944 sfilavano per il centro di Marsiglia le unità della resistenza che avevano appena contribuito a liberare la città. Ad aprire la
parata c'erano i componenti della compagnia Marat; si trattava di un'unità comandata dal rumeno Mihail Florescu e in larga parte composta da stranieri. Quel giorno a portare la bandiera della Marat, un tricolore francese su cui era stato cucito il nome del celebre rivoluzionario, era l'albanese Veli Dedi. Alla sfilata non poterono partecipare lo jugoslavo Dimitri Koturovic, caduto in combattimento nell'aprile precedente, e l'armeno Sarkis Bedoukian, colpito a morte poche ora prima durante la decisiva per liberare la città.

L'Albania
Pochi mesi dopo si produce una scena analoga dall'altra parte del continente europeo. Il 17 novembre la resistenza albanese aveva liberato Tirana e anche in quel caso si organizzò una parata per celebrare l'evento. Come a Marsiglia, anche a Tirana sfilarono alcuni combattenti stranieri. Si trattava degli italiani del battaglione Gramsci, che sventolavano un tricolore italiano e la bandiera albanese. In una foto scattata quel giorno gli italiani sono in posa con l'uomo che pochi mesi prima e dopo lo sbandamento dell'esercito italiano successivo all'8 settembre li aveva
convinti a passare dalla parte dei resistenti albanesi, Mehmet Shehu. In totale avevano combattuto al fianco dei partigiani albanesi circa 2mila italiani, di cui più di 500 furono integrati nelle brigate partigiane già esistenti. I caduti furono una settantina. I due esempi appena citati ci parlano di un fenomeno più diffuso di quanto si potrebbe pensare: sono infatti legati a migliaia gli europei e le europee che si trovarono a combattere nei ranghi dei movimenti di resistenza lontani dal proprio paese d'origine.

Un problema continentale
La loro scelta di prendere le armi era legato alla consapevolezza che quello dei fascismi era un problema continentale e che, in quanto tale, poteva essere combattuto ovunque. Le storie di questi uomini e di queste donne sono però rimaste ai margini di memorie e narrazioni sedimentatesi su scala nazionale. Le resistenze sono state infatti normalmenteordine presentate, soprattutto per valutazioni d'politico, come dei
fenomeni europei endogeni a ciascun stato. Gli italiani vogliono cioè combattuto per la liberazione dell'Italia, i francesi per quella della Francia, i polacchi per quella della Polonia e così via. Secondo tale prospettiva le resistenze contro le occupazioni nazifasciste rilasciate state dei fenomeni sincronici, ma ma indipendenti l'un l'altro. Così non fu, troppo spesso si è ignorato come l'attività di resistenza a un'occupazione o anche a un regime autoctono sia generalmente il frutto dell'interconnessione di più piani (locale, nazionale, internazionale e transnazionale).È stato così in tutti i passaggi della storia novecentesca, e fu così anche nell'Europa della Seconda guerra mondiale. Da dove nasce questa mancanza? Per comprenderne l'origine si deve tornare al 1945 e all'Europa che provava a uscire dal Secondo conflitto mondiale, in quel contesto (tanto a ovest come a est) erano essenziali dei miti fondativi su cui erano ricostruiti le comunità nazionali e la resistenza declinata su scala nazionale fu uno di questi, forse uno dei più importanti (basti pensare i casi italiano, francese e jugoslavo).


Esuli, prigionieri, disertori
Chi furono i resistenti transazionali? Per provare a capirlo si deve innanzitutto ricordare come l'Europa che era entrata nella Seconda guerra mondiale fosse un continente che era da decenni in cui era ancora costantemente il numero di esuli interni; questi uomini e queste donne che eranoti da regimi autoritari o fascisti parteciparono spesso con entusiasmo ai movimenti di resistenza nei paesi che li avevano soli (si trattò di un fenomeno particolarmente rilevante nel caso francese e scappa in quello belga). Un altro consistente nucleo di
resistenti transnazionali venne
fornito da quei prigionieri di
guerra alleati che furono liberati o
riuscirono a fuggire dalle località di
internamento rimanendo però
bloccati dietro le linee nemiche;
molti di questi decisiro di
aggregarsi alle bande di partigiane
locali (questo successe con una
certa frequenza nel nostro paese).
Ci furono infine i disertori degli
esseri dell'Asse o che
vissero lo sbandamento delle
proprie forze armate nel territorio
nemico. Rispetto a quest'ultima
basterà ricordare la scelta
resistente di alcuni dei militari
italiani di stanza nei Balcani
all'indomani dell'8 settembre 1943,
oltre al già citato caso albanese va
ricordata anche la costituzione
della Divisione partigiana Garibaldi
che combatté inquadrata
nell'Esercito popolare di
liberazione della Jugoslavia e che,
alla sua costituzione, contava circa
16mila effettivi. Circa un terzo di
loro sarebbe caduto durante la
lotta.
I reduci di Spagna
Infine, per comprendere
la piena dimensione
dei movimenti europei di resistenza si deve
fare lo
ampia che includa
anche la guerra spagnola civile
(1936-1939). Mihail Florescu, Veli
Dedi, Dimitri Koturovic e Mehmet
Shehu, per tornare alle liberazioni
di Marsiglia e di Tirana, erano tutti
reduci di quel conflitto. In Spagna
avevano preso le armi di
migliaia di antifascisti provenienti
da mezzo mondo, gran parte di loro
aveva fatto parte delle celebri
Brigate internazionali. Si trattava di
combattenti, già da prima dello
scoppio della Seconda guerra
mondiale, avevano chiaro come
quello del fascismo fosse un
problema europeo e che dovesse
essere combattuto ovunque fosse
possibile. «Oggi in Spagna, domani
in Italia» aveva del resto dichiarato
l'italiano Carlo Rosselli a Radio
Barcellona nel novembre del 1936.
A partire dal settembre del 1938 le
Brigate internazionali furono
ritirate dai fronti e ai loro reduci fu
subito chiaro che quella lotta
sarebbe proseguita altrove, e così fu.
Questi riduci, dopo essere stati
costretti in molti casi a
dalla traumatica esperienza
dell'internamento nei campi
francesi (esperienza che passarero dopo
con la popolazione
spagnola che si era rifugiata in
Francia dinnanzi alla vittoria
franchista), si sparsero a macchia
d'olio in il tutto
confondendosi, il continente settembre
del 1939, tra i protagonisti dei nuovi
movimenti di resistenza. Furono i
reduci di Spagna ad addestrare ea
ispirare una nuova generazione di
antifascisti europei.
Il polacco Adam Rayski doveva
venire molti dei suoi
commilitoni nella Resistenza
francese sarebbero ebrei reduci di
Spagna. Il livornese Ilio Barontini,
prima di tornare in Italia e
andare all'organizzazione dei
Gap, ebbe il tempo di addestrare
guerriglieri antifascisti in Etiopia e
in alcune zone della Francia. Lo
spagnolo Domingo Ungría,
rifugiatosi in sovietica
dopo la fine della guerra di Spagna,
avrebbe invece organizzato e
addestrato unità di guerriglieri
attive dietro le linee nemiche sul
fronte orientale.
Come ha rilevato la storica
britannica Helen Graham, i reduci
di Spagna erano dei combattenti
che incarnavano, molto spesso a
loro stessa insaputa, una modernità
cosmopolita che sarebbe riemersa
con forza con la loro partecipazione
al Secondo conflitto mondiale, una
modernità cosmopolita che si
opponeva radicalmente ai princìpî
di purificazione e di igiene sociale
dei fascismi europei, una
modernità cosmopolita che
deve sviluppare la natura
stessa dei movimenti della
resistenza europea.
Luigi Meneghello, nel suo I piccoli
, doveva venire come il
gruppo di giovani partigiani di cui
facevano parte easse spesso a
trovare un veterano di Spagna che
«commossi e riverenti» e
come i giovani partigiani lo
ascoltarono.
Enrico Acciai insegna Storia Globale
all'Università di Roma “Tor Vergata” e
si è occupato di storia
dell'antifascismo europeo, storia
dell'anarchismo e storia del
volontariato transnazionale in armi
© RIPRODUZIONE RISERVATA
VERSO IL 25 APRILE
Un gruppo
di Parigi
combattenti
festeggia
la liberazione di FOTO AGF Quella dimensione europea che univa le resistenze contro i fascismi ENRICO ACCIAI storico mercoledì 13 aprile 2022 ANALISI 13Un volume raccoglie i quattro libri che lo scrittore ha realizzato a partire dalla sua esperienza di insegnante:







Ex cattedra, Fuori registro, Sottobanco, Solo se interrogato. Pagine bellissime e divertenti, che diventano
anche libri preziosi di storia della scuola e dell'insegnamento, visti i piani temporali che attraversano
La scuola (Einaudi,
2022) è il titolo del
volume che racco-
glie i quattro
che Domenico Starnone
ha scritto a
partire dalla sua esperienza di
insegnante: Ex cattedra (1987),
Fuori registro (1991), Sottobanco
(1992), Solo se interrogato (1995).
Un'occasione per rileggere tutte
d'un fiato pagine che sono
innanzitutto bellissime e divertenti
, ma che diventano anche fonti
preziose di storia della scuola e
dell'insegnamento, visti i numerosi
piani temporali che attra-
versano.
Tutto dentro un gioco di specchi
che riflette il presente, come se
Starnone avesse fotografato, in
modo nitido, l'alba dei tempi
nuovi, quelli che stiamo vivendo
. Tempi non proprio entusiasmanti
, di crisi, di auto-critica feroce
, eppure con un finale a
sorpresa che ci fa chiudere il libro
grati e, davvero, per una volta,
pieni di speranza.
La “grande” mobilitazione
I diari di scuola hanno inizio
nell'anno scolastico 1985-1986,
l'anno dei programmi Falcucci e
della “grande” mobilitazione
degli studenti medi, ma anche di
Chernobyl e degli Style Council.
Alle spalle due decenni nei quali
il ruolo del professore delle scuole
superiori è stato interamente
ripensato per dare vita a un
“nuovo insegnante” di sinistra.
Nessuno però, se non il movimento
del Settantassette e qual-
che intellettuale di destra, si è
ancora sognato di prenderlo in
giro, questo nuovo insegnante.
Così la rubrica di Starnone
segna uno spartiacque nel raccon-
to della scuola post Sessantotto.
Il professore progressista, delegato
Cgil, buono con gli studenti
del tutto indifferenti, circonda-
to da colleghi ignoranti o cara-
teriali, risulta essere anche lui
un inetto, perché incapace di
prendere le distanze da un'idea
di scuola che, alla prova dei fatti,
si rivela del tutto astratto.
Uno spunto particolarmente efficace
è, in questo senso, il discor-
so che Starnone fa sui nomi delle
piante. Forse non il tema più
visibile. Ma sicuramente fra i
più paradigmatici. Starnone lo
usa per mettere in luce la distanza
fra il “cosa” si pensa di essere e
cosa si finisce per essere per davvero
, quando, messe da parte letture
e ideologie, ci si trova a varcare
la soglia di un'aula scolastica
.
Il primo
incarico Prendiamo Ex cattedra,
(1985-87). Lì, a un certo punto,
Starnone racconta del “suo” primo
incarico da insegnante, a
San Chirico Raparo, dove è arrivato
«in un mattino gelato del
1969, dicembre, dopo molte ore
di treno nella notte e poi altre
ore di viaggio all'alba, su una
corriera sgangherata e gonfia di fiati
caldi».
Metto fra virgolette il “suo”
perché, come scrive nell'Avvertenza
che chiude Fuori registro: «Per
ultimo: “io” non sono io. Niente di
ciò che ho raccontato qui mi è
realmente accaduto. Se fatti e
persone dovessero sembrare reali
, la colpa è tutta della realtà».
Ma torniamo al primo incarico,
nell'anno della più grande mobi-
litazione sindacale della storia,
forse non solo italiana, a qual
che giorno di distanza dalla strage
di piazza Fontana, a due anni
dalla pubblicazione della Lettera
a una professoressa della scuola
di Barbiana.
Anche le paure del giovane insegnante
sono paure dei suoi
tempi che qualche anno prima un
suo collega non aveva avuto:
«E se faccio cattiva impressione?
e se mi impapero? e se dico: zitto!
e mi rispondono: zitto tu?».
La scuola di Barbiana
La presa della parola da parte
degli studenti del Sessantotto si
trasforma in una prospettiva te-
mibile per chi ha da poco fatto il
salto della barricata ed è diventa-
a professore.
Un modo inequivocabile per
tornare a essere “dalla parte degli
studenti”, evitando contestazio-
ni, viene individuato, allora, nel
libro dei ragazzi di Barbiana:
«Avevo letto don Milani e progetto
di essere non come la
professoressa della Lettera, bensì
come lui. Non prete, però, solo rivo-
luzionario ed esperto in nomi
degli alberi (mai dire: sali su
quell'albero, sempre determina-
re: sali su quel ciliegio), in modo
da fare bella figura con i miei al-
lievi di campagna ».
Era stato don Milani, infatti, a
notare che nei manuali scolasti-
ci si seminava sempre nel mese
sbagliato, e le illustrazioni non
erano mai giuste e là dove si par-
lava di un pero appariva,
inesorabile, un pesco.
Il solco fra sapere in teoria, e
quello pratico dei ragazzi, figli
di contadini, andarono colmato
per germogliare la figura del
nuovo insegnante. Quale modo
migliore di colmarlo, dunque,
dell'imparare a mente tutti i nomi
degli alberi?
Scrive Starnone: «Quando sono
entrato per la prima volta in
classe, un'aula dell'Ottocento, stufa
a perché il camino
non legnava bene, un teppistello è
uscito dal banco senza chieder-
mi il permesso. E io gli ho intima-
to: fermo là, come ti chiami. Lui
s'è fermato e “Cataldi” ha detto
indicando la legna in un angolo,
e poi: “Il ciocco”, per farmi capire
che il suo compito era alimenta-
re la stufa. Allora io ho concesso:
fa' puro. E quindi “che legna è?”
ho chiesto col tono di chi dice:
vediamo se lo sai. Lui ha fatto lo
sguardo così: ?. Io in gran tensio-
ne ho precisato: di che albero. Il
ragazzo mi ha risposto: che ne
so. Allora l'ho fissato a lungo ter-
rorizzando senza intenzione.
Pensavo solo: se distolgo lo
sguardo mi chiede che albero è e
nemmeno io lo so. Ma il ragazzo
invece mi ha chiesto: “Chi
ha messo la bomba a Milano?” Io
ci ho pensato e nemmeno quel-
lo sapevo. Ho risposto: “Vediamo
l'importanza delle tombe
per gli antichi egizi”. “È stato lui”,
allora ha sussurrato Cataldi agli
altri».
Forse, uno dei dialoghi più riu-
sciti mai scritti sulla scuola,
insieme ad alcune pagine di Lucio
Mastronardi e del suo Maestro di
Vigevano (costantemente omaggiato
da Starnone, anche
quando lo usa per mettere in luce l'i -
gnoranza del presiede: «È un
omaggio alla memoria del colle-
ga Mastronardi». Il preside: «
Vi- valdi, posso capire l'affetto che
la lega alla memoria di un
amico scomparso»).
In questo dialogo sui ciocchi e
piazza Fontana, da un lato c'è
l'insegnante progressista che,
con le migliori intenzioni, interpreta
senza fantasia nessuno
quello che considera il vademecum
del buon educatore del suo
tempo: imparare i nomi degli alberi
, in questo caso. Dall'altro i
ragazzi, sempre diversi, che pas-
sano e cambiano, e che chiedo-
no una cosa soltanto: di essere
guardati e non immaginati,
anche attraverso la lente di
Lettera a una professoressa.
Mondo arcaico e artificiale
Prendiamo Fuori registro (1991),
dove non c'è più nemmeno lo sti-
molo della politica imparare a imparare il
professore a i nomi
delle piante che diventano sinto-
mo di un sapere incartapeco-
to, inutile e puro sbagliato.
«Tarassaco», esclamo, indicando
macchie gialle sui campi, oltre i
binari della ferrovia. «Tarassaco
» è parola di mirabile solo
poetico. Le faccio notare: «Il colore
è accecante». E poetizzo: «Avvampa
il tarassaco». Lei cautamente
mi corregge: «Sono
broccoletti».
Il re è sempre nudo per i ragazzi
e le ragazze di Starnone, il disin-
canto li accompagna in una
scuola che siede tra passato e futuro
ma non li ha presenti en-
trambi, li confonde e basta.
«Avvampa il tarassaco». Il tarassaco
che poi è un broccoletto, il
tarassaco bugiardo, parafras-
do un celebre studio di Umberto
Eco sui manuali scolastici, I
pampini bugiardi, pubblicato nel
1972.
L'universo linguistico e immagi-
nato degli insegnanti altro
non è che un mondo arcaico e
artificiale fatto di parole e oggetti
che galleggiano nell'aria immobile
della scuola come fantasmi,
privi di vita e di sostanza.
L'eresia catara, di pirandelliana
memoria, il Moro di Venezia, usa-
to per combattere il razzismo
mentre lo si esercita contro l'uni-
co studente africano, al quale
non viene fatto nemmeno legge-
re perché non può capirlo, il dolore
di Pascoli e Manzoni da
misurare un tanto al chilo nei
secoli dei secoli della pubblica istru-
zione (e chissà chi stava peggio),
in una parola i programmi
ministeriali e l'eterna domanda del
«dove sei arrivato», fatta al colle-
ga, come se «il programma fosse
una linea ferroviaria e Leopardi
la stazione di Battipaglia».
Scrive Starnone: «Mentre parlo, a
volte mi rendo conto che dovrebbero
vietarmi ai minori. Invece
mi stipendiano perché ai minori-
ri racconti la storia dell'umanità
per piccoli ma saporosi assag-
gi: vessazioni, violenze, dominio
dei pochi sui molti, poesia e
prosa dei cattivi sentimenti tra-
vestiti nel finale da buoni sentimenti
di buoni d'animo che
hanno no commesso ogni sorta di
misfatti contro quelli d' animo
cattivo. I minori, in genere, si salvano
solo perché, per una
conven- zione non scritta, tutto ciò che ri-
suona nelle aule, falso o vero che
sia, non li turba: sono solo “lezio-
ni scolastiche”, “ esercizi”, “compiti
”».
Niente a che vedere con la vita vera
. Un canone di saperi che perdono
ogni verità se non quando,
paradossalmente, vengono fatti
a pezzi come è il caso del Manzo-
ni odiato e sbeffeggiato dal «collega
Zanella» per cui la madre di
Cecilia diventa il trionfo
stucchevole del “ma”: «È una donna
di giovinezza avanzata ma non
trascorsa, con una bellezza velata
e offuscata, ma non guasta, di
un'andatura afficata, ma non
cascante». «Ma quanti “ma”!».
Fino a quando non è proprio Za-
nella a diventare la madre di Cecilia
in una commovente rappre-
sentazione in classe che il
narratore sbircia, insieme al bidello,
dal buco della serratura, per poi
sciogliersi in lacrime: «La classe
era paralizzata da un innaturale
silenzio. Zanella era diventata
la madre di Cecilia. Un portento.
A cinquant'anni e passa era riuscito
a darsi un aspetto che
annunziava una giovinezza
avanzata ma non trascorsa. Malgrado
i baffoni, e pur essendo di
Ascoli Piceno, ostentava quella
bellezza molle ea un tempo maestosa
che brilla nel sangue lombardo
. La passione grande e un
languor mortale gli velavano e
offuscavano un pochino il corpo
bello, ma non glielo guastava-
no. E incedeva dal termosifone
alla prima fila di banchi con
un'andatura afficata, ma non
cascante».
Prova d'orchestra
Il terzo libro della nuova raccol-
ta di Einaudi è Sottobanco (1992)
da cui è tratto il film La scuola
(1995) di Daniele Lucchetti. Sotto-
banco è un copione che mette in
scena un consiglio di classe.
Ci sono l'elenco dei personaggi e
le battute, in modo che emerga,
polifonica, la dissonanza
stridente delle voci che concorrono
a formare la scuola dalla parte
degli insegnanti, ché gli studenti
qua non parlano mai.
Una prova d'orchestra di felliniana
memoria, tanto nessuno sem-
bra procedere in sintonia con i
propri colleghi. Così c'è il presi-
de, figura eterna che fin dai
tempi di Ex cattedra continua a ripe-
IL MESTIERE DI INSEGNARE
La scuola (Einaudi, 2022) è il titolo del volume che
raccoglie i quattro libri che Domenico Starnone ha
scritto a partire dalla sua esperienza di insegnante:
Ex cattedra (1987), Fuori registro (1991), Sottobanco
(1992), Solo se interrogato (1995).
Domenico Starnone, nato a Napoli nel 1943, ha vinto
il premio Strega nel 2001 con Via Gemito. Per
Einaudi ha inoltre pubblicato Spavento (2009,
Premio Comisso), Autobiografia erotica di Aristide
Gambía (2011), Il salto con le aste (2012, prima
edizione 1989), Condom (2013), Lacci (2014, The
Bridge Book Award), Scherzetto (2016, premio Isola
d'Elba, finalista al National Book Award nella
traduzione di Jhumpa Lahiri), Le false resurrezioni
(2018), Confidenza (2019 e 2021), Vita mortale e
immortale della bambina di Milano (2021). Dai
libri sono stati tratti film di successo, tra i quali La
scuola di Daniele Luchetti, Auguri professore di
Riccardo Milani, Denti di Gabriele Salvatores e Lacci
di Luchetti.
Il libro
È come se
Starnone
aveva
fotografato,
in modo nitido,
l'alba dei tempi
nuovi, quelli che
stiamo vivendo
ILLUSTRAZIONE
DI DARIO CAMPAGNA
La scuola di Starnone dove
«avvampa il tarassaco»
Quel gioco di specchi
tra scrittore e professore
VANESSA ROGHI
storica
14 IDEE mercoledì 13 aprile 2022tere che a scuola «non si fa poe-
sia» salvo poi decidere di farla,
una tantum, per spiegare le
ragioni della bocciatura all'alun-
no Cardini, una bestia, un
ignorante.
La poesia che serve a infiocchettare
un'ingiustizia, tangibile
quando Cardini viene messo a
confronto con l'alunna Solofra
«che è tanto brava».
Ecco che Cozzolino, l'insegnante
progressista, in crisi, ma in modo
diverso dal suo collega di Ex
cattedra, recupera proprio il don
Milani della Lettera per dire che
«Solofra non studia, Solofra è
una prima della classe. Non ha
tic. Non traducendo dal
dialetto in un italiano da
troglodita. Non ha i capelli alla mohi-
cana. Non si veste come la figlia
di uno spacciatore. Non ascolta
la lezione col walkman. Non porta
scarpe vecchie di sua sorella
che puzzano. Solofra è pulita. Interrogata
, si dispone di lato alla
cattedra, senza libro, senza ap-
punti, senza imbrogli. Ripete la
lezione senza pause, tutto quello
che c'è sul libro, tutto quello
che m'è uscito di bocca. Alla fine
di questo fedele rispecchiamen-
to del mio lavoro le metto nove
e vorrei tagliarmi la gola. Solo
fra è la prova che la scuola fun-
ziona solo con chi non ne ha bi-
sogno».
Un'idea di scuola
Chiude la raccolta Solo se interroga-
gato (1995), dove l'autore torna a
scrivere in prima persona,
cercando un modo per far asso-
migliare la pratica didattica alla
sua idea di scuola, un'idea nata,
non solo, sui libri, ma anche in
reazione alla scuola di ieri, quel-
la che ha frequentato da bambino
e che ha detestato (tema ricor- rente
in molti racconti).
Solo che qui è scomparsa l'ironia
mentre è subentrata una
pensosa e radicale critica all'im-
mobilità in cui è immersa la
scuola. Sono passati 27 anni dalla
pubblicazione di questo libro
e pare scritto oggi.
La scuola senza domande, che
«interroga senza farsi mai inter-
rogare», sembra proprio non es-
sere mai mentre sem-
pre più profondo è quell'abisso
fra le biografie dei docenti e dei
discenti che qualche decade
fa si pensava di compilare imparando
a mente i nomi delle piante
.
«Ipotizzo da tempo che i miei
alunni hanno potenzialità
che non sono capaci di captare»,
si dice il protagonista di Solo se
interrogato. «Leggiucchio qua e
là per capire cosa si sa delle
attitudini dei giovani nati a occhio
e croce vent'anni fa. Non ne cavo
granché. Allora aguzzo lo sguardo
, cerco di cogliere segnali per
conto mio. Ma i ragazzi si ado-
rano per non lanciarne. La scuola
, probabilmente, seguitando a
pretendere le cose che pretende
da duecento anni, li ha convinti
da tempo che potenziali
tà sono, nell'ottica del successo
scolastico, negative; è bene, quindi
, farsi in quattro per nascon-
derle e adatto fiaccamente a
ciò che si esige da loro, se si
vogliono collezionare stentate suf-
ficienze». La scuola diventa così
un «monumento agli atti dovuti
»: frequentare, non essere mai
un problema, parlare solo
«quando si è interrogati».
I libri di Starnone finiscono per
tracciare così la genealogia di
un'idea di scuola e di un tipo di
insegnante che non ha mai
smesso di riflettere su sé stesso,
con ironia ma senza nessuna
indulgenza, e senza incarognirsi,
che troppi sono quelli che, in no-
me di una indefinita età dell'o-
ro, invocano oggi un ritorno
all 'ordine che guarda caso coincide
con gli anni della loro
giovinezza.
Ma quale ordine, sembra dirci
Starnone? Quello della (sua)
maestra Magliaro e dei suoi
pampini bugiardi, la scuola «del
fastel d'aridi ciocchi, e dei fringuelli
irrigiditi»; o quella del
professor Freschi la cui moglie, «a paga-
mento, lavorava per un'ora
precisa a non farmi capire di pome-
riggio quello che lui non mi face-
va capire di mattina».
No, meglio guardare avanti, an-
zi davanti, guardare i ragazzi e le
ragazze, pretendere da loro domande
e non risposte, salvo poi
scoprire di non saper rispondere
re a queste domande e cercare
una risposta, per una volta, tutti
insieme. © RIPRODUZIONE RISERVATA
Anche Brunetta
dice che
lo schwa genera
confusione
MASSIMO ARCANGELI
linguista
I l 4 febbraio 2020, sollecitato dal collega
Angelo d'Orsi, ho lanciato una petizione
contro lo schwa sottoscritta finora da più
di 23.000 firmatari, siglata da una trentina
di intellettuali, fra linguisti e letterati,
storici e filosofi, artisti e scrittori (da
Massimo Cacciari ad Alessandro Barbero, da
Edith Bruck ad Ascanio Celestini, da Cristina
Comencini a Barbara De Rossi, da Luca Serianni a
Francesco Sabatini, da Gian Luigi Beccaria a
Claudio Marazzini, presidente dell'Accademia
della Crusca). Disorientamento normativo,
aggravamento di disturbi neuroatipici, aumento
del disordine prodotto dalla moltiplicazione
incontrollata delle marche di genere (asterischi,
slash, chioccioline, ecc.), natura destrutturante
dell'innovazione. Sono alcune delle ragioni per
le quali ritenevo – e ritengo – inaccettabile
l'immissione dello schwa (ə) nell'italiano
corrente, nel suo ruolo di vocale neutra
portatrice d'inclusività. In cima a tutto c'era però
l'abuso istituzionale di un simbolo affiorato, con
lo schwa “lungo” (3) per l'indicazione del plurale,
in sei verbali redatti dalla Commissione
nazionale per l'abilitazione scientifica nazionale
alle funzioni di professore universitario di
prima e seconda fascia del Settore concorsuale
13/B3 – Organizzazione Aziendale. Lo schwa e lo
schwa “lungo” comparivano anche nei giudizi
collegiali sui candidati, e in quelli formulati
singolarmente dal presidente, dal segretario e da
un terzo membro dei cinque componenti della
Commission (qui, però, in un unico caso, con
riferimento a un solo candidato: «professorə
associato»). Mi sono chiesto come una tale
violazione delle regole dell'italiano normativo
potrebbe aver investito addirittura atti pubblici e
liberamente consultabili, e mi sono risposto
adducendo altre motivazioni, ancor più
dirimenti di indicare, a rinforzo
dell'inammissibilità dello schwa nell'uso
linguistico corrente : il grave pericolo di una sua
“ufficializzazione” ei danni arrecati da cinque
commissari incoscienti ai doveri di trasparenza
della pubblica amministrazione. Resto ancora in
attesa del paziente di una risposta della ministra
dell'Università e della ricerca alla e-mail scorso
certificato che le ho fatto recapito il 29 marzo
, tramite il mio legale (inviata per
conoscenza al ministro dell'Istruzione, al
presidente del Consiglio e al presidente della
Repubblica), con allegata una perizia redatta da
due esperti, Antonello Fabio Caterino e Désirée
Fioretti. Nella pec ho chiesto che i sei verbali
interessatiro riscritti in italiano
normativo, ma è intanto arrivata una risposta
del ministro per la Pubblica amministrazione
Renato Brunetta a un'interrogazione
parlamentare in materia presentata dal senatore
Mario Pittoni, vicepresidente leghista della
commissione Cultura di palazzo Madama .
Nel rinviare un elenco di documenti prodotti
dal Dipartimento della funzione pubblica del
ministero per la Pubblica amministrazione, in
particolare a due direttive del 2005 ("Direttiva
sulla semplificazione del linguaggio delle
pubbliche amministrazioni") e del 2007 ("Misure
per attuare parità e pari opportunità tra uomini
e donne nelle amministrazioni pubbliche”), il
ministro Brunetta fa notare come in nessuno di
quei documenti venga «fatto riferimento alla
possibilità di impiegare la desinenza neutra
schwa a fini inclusivi, non discriminatori e non
definitori di genere».
Come non bastasse, a corredo della
documentazione fornita, viene citato dal
ministro il passaggio di un atto del 2020,
emanato dall'Agenzia delle entrate (“Linee guida
per l'uso di un linguaggio rispettoso delle
differenze di genere”): «È importante ricordare
che l'uso di forme abbreviate con l'asterisco al
posto della desinenza ("collegh*") è
sconsigliabile perché può ostacolare la comprensione del testo
o appesantirne la lettura. Poiché lo
sdoppiamento (“colleghe e colleghi”) comporta
un allungamento e un appesantimento del testo,
in alternativa è spesso preferibile l'utilizzo dei
sostantivi non marcati o di nomi collettivi». Più
chiaro di così. © RIPRODUZIONE RISERVATA
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