Un Paese ostile i giovani (anche sulla crisi climatica)

di Paolo Giordano 

Se è vero che quasi la settanta per cento degli italiani è preoccupato per l'impatto dei cambiamenti climatici, e ne riconosce l'origine nelle attività umane, allora un passo avanti importante è stato fatto nella coscienza ambientale collettiva. La crisi climatica — che prima del 2018 (l'anno di Greta) non era un tema mainstream, e prima del 2015 (l'anno degli accordi di Parigi) non era quasi un tema — è finalmente diventata una rilevanza maggioritaria.

A Faenza si continua a spalare acqua fango e detriti mentre allunga i volontari giunti in aiuto

A Faenza si continua a spalare acqua, fango e detriti mentre aumentano i volontari giunti in aiuto (Keystone)

Di sicuro lo è adesso, nel pieno dello sgomento per l’alluvione in Emilia-Romagna. Accanto a questa consapevolezza diffusa, tuttavia, affiorano già nuove forme, se non proprio di negazionismo climatico, quanto meno di riduzionismo. Tra queste, la più comune è lo slittamento del discorso su altri piani: «Sì, certo, la crisi climatica esiste, ma l’alluvione dell’Emilia-Romagna è dovuta all’incuria nei
confronti del territorio, alla mancata manutenzione». Slittamenti simili avvengono di continuo, a livelli diversi, anche inconsci, per esempio nel linguaggio, battezzando il  piano di aiuti «decreto maltempo», così da riportare quanto accaduto nella zona più rassicurante delle calamità meteorologiche, delle situazioni eccezionali che si manifestano una volta ogni moltissimi anni, senza alcuna considerazione ulteriore sulla loro aumentata frequenza.

In questa confusione di intenti, gli unici che portano avanti ciò che gli scienziati si sgolano a ripetere da tempo — «più eventi climatici estremi, sempre più estremi, e il tempo per agire è ormai poco» — sono i giovani attivisti e le giovani attiviste per il clima. Non sono tutti giovani a dire il vero, ma per la maggior parte sì, e questo, lungi dal renderli più simpatici, sembra unificare lo sdegno nei loro confronti. Una riprovazione bipartisan, una volta tanto. Quando si parla di loro, degli attivisti per il clima, lo si fa per lo più ridicolizzandone gli sforzi («perché non andate a spalare il fango invece di versarvelo addosso?») o arrivando perfino ad accusarli di essere fra le cause stesse del disastro ambientale. I commenti sugli account social di organizzazioni come Ultima Generazione ed Extinction Rebellion mostrano un astio che dovrebbe farci fermare a riflettere: perché tanta animosità? Con chi ce la stiamo prendendo veramente. A Roma — a Roma! — siamo d’un tratto diventati così sensibili per un po’ di fango versato a terra? Non sarà, invece, che ci stiamo infuriando contro qualcosa che sappiamo ma preferiamo non ci venga sbattuto in faccia così?

I critici più indulgenti se la prendono con la forma: «Va bene, c’è la crisi climatica, ma non sono questi i modi!». Perché le interruzioni del traffico infastidiscono, le opere d’arte andrebbero venerate da distante senza sfiorarle, e non lasciar parlare in pubblico qualcuno è da prepotenti. Come se il dissenso, qualunque dissenso, avesse mai potuto esprimersi perfettamente «a modo» secondo i gusti dell’epoca corrente. E come se, fra l’altro, i manifestanti per il clima, dai Fridays for Future in avanti, non mostrassero un rispetto singolare per la buona educazione: dai primi scioperi silenziosi sotto la pioggia, alle vernici lavabili; dal carbone vegetale nella fontana, fino al fango, che è solo fango ed è versato su di sé, nemmeno addosso ad altri. Perfino la protesta delle tende, che ha ragioni diverse ma contigue, dovrebbe colpire per quanto è composta, invece provoca la reazione contraria.

Comunque la si pensi sulla gravità delle singole azioni, nella critica delle azioni stesse si consuma ogni possibilità di riflettere sul messaggio che portano. Così, noi dimostriamo a quei ragazzi e quelle ragazze che non crediamo davvero a ciò che ci stanno dicendo. Non crediamo che la loro sia sul serio una lotta esistenziale, per la sopravvivenza, di fronte alla quale anche l’immortalità dell’arte rischia di non giovare più a nessuno. Noi affermiamo di crederci ma senza crederci davvero, come fanno spesso gli adulti. Quel quasi settanta per cento rilevato da Demopolis, in realtà, è un miraggio.

C’è un altro elemento, più triste. Un mese e mezzo fa ero a Parigi durante una delle manifestazioni contro il governo. In particolare ero a Montparnasse quando i manifestanti hanno tentato di incendiare la Rotonde, il ristorante identificato come uno dei simboli del potere. La manifestazione era massiccia, carica di tensione, anche di violenza, come da noi non se ne vedono da parecchi anni. Ma ciò che mi ha stupito non è stato questo, bensì il fatto che i giovani che la guidavano fossero largamente sostenuti dalla popolazione adulta. In modo esplicito oppure no, ma sostenuti. Da noi: il contrario. Quando è accaduto? mi chiedo. Quando ci è successo di diventare un paese così ostile ai propri giovani? Quando ci siamo di- menticati che a vent’anni non si ha nessun potere, nessuno, né decisionale né mediatico, se non quello del proprio cor- po? E che il massimo che si può fare, con quel corpo, è usarlo per ostruire? Quando ci siamo dimenticati che, in quell’ostruire, c’è anche un tentativo di costruire?

Gli ecoterrorismi esistono, nessuno lo nega. Come esistono gli ecofascismi e anche, meno drammatici ma molto più comuni, gli ecoimmobilismi, con tutti i problemi che causano. Ma, almeno fino a prova contraria, non è ciò che stiamo vedendo. Per ora assistiamo per lo più ad azioni dimostrative, non violente, richieste di attenzione che forse sarebbe arrivato il momento di prendere in considerazione più seriamente di così, per quello che vogliono comunicare. Può darsi che in quella voce che tanto ci infastidisce riconosciamo non solo la voce in questo momento più vicina alla scienza, ma anche quella più vicina a una protesta, sommessa e scomoda, che esiste pure nella nostra coscienza.

Corriere della Sera 25 maggio 2023