Il Mediterraneo ci sorprenderà

di Giovanna Mancini

Quando sua figlia le ha detto che intendeva indossare il velo, non ha potuto nascondere una certa sorpresa. Lei, Hanan Kassab Hassan, docente universitaria e direttrice della Dar Al-Assad Opera House for Culture and Arts di Damasco, il velo non lo ha mai portato. Cresciuta in una famiglia comunista (la madre partecipò alla marcia di Mao del 1949) Hanan ha studiato teatro nella capitale siriana e poi a Parigi. Tra le altre cose è stata segretario generale di Damasco capitale della cultura araba nel 2008. Un evento importante, perché ha portato oltre 500 nuovi posti di lavoro, ma soprattutto «ha sviluppato nuove abitudini culturali nella popolazione, creando un pubblico che oggi pretende manifestazioni culturali di livello alto». Hanan, bilingue e cosmopolita, elegante e sobria con i suoi capelli corti e nei pantaloni scuri abbinati a una semplice camicia bianca, è una delle tante donne emancipate e colte che sempre più spesso si incontrano nei paesi musulmani del Mediterraneo.

«Le donne in Siria hanno sempre avuto un ruolo politicamente attivo, a partire dal 1920, come dimostra la presenza di cinque ministre nell’attuale governo, di cui una al Lavoro, una all’Economia e una alla vicepresidenza». Eppure il velo torna a vedersi nelle strade vivaci e illuminate dalle vetrine di Damasco e Aleppo, e spesso sono le più giovani a indossarlo, a braccetto con madri che, come Hanan, camminano invece serenamente a capo scoperto. «La ragione non è politica o religiosa – replica Hanan – ma mediatica: in televisione le donne compaiono con il velo e le giovani le imitano. È diventato un simbolo di identità». La questione del velo, concorda Raja Farhat, drammaturgo e regista teatrale tunisino oggi consulente al ministero della Cultura del suo paese, è spesso un problema più europeo che musulmano.

Farhat, come Hassan, ha partecipato al primo Forum delle città del Mediterraneo di Napoli, dove rappresentanti culturali delle principali metropoli delle due sponde – testimoni di una middle class in espansione – si sono confrontati per realizzare nel settembre 2011 un grande evento che porterà nel capoluogo campano "frammenti" della vita culturale ed economica di queste città. «Vogliamo trasmettere l’importanza che il Mediterraneo ha per lo sviluppo dell’Europa, troppo concentrata su un’espansione verso Est e poco attenta alle potenzialità del Sud», spiega Renato Quaglia, direttore artistico e organizzativo del progetto. Un progetto che si propone di rovesciare la visione dominante di lettura del rapporto Nord-Sud come un rapporto tra ricchezza e povertà. «È un’idea arcaica del mondo, di cui l’Europa è prigioniera – afferma Raja Farhat – legata a uno schema semplicistico che identifica Islam e fondamentalismo, ma che non tiene conto delle radici storiche e culturali comuni tra i paesi del Mediterraneo. Né tiene conto della crescita economica di questi paesi e della loro classe media, che vive in metropoli ricche di cultura, di teatri, di università». Farhad, quadrilingue (oltre all’arabo e al francese, parla italiano e inglese), è un vero cittadino del Mediterraneo: ha vissuto a Tunisi, in Francia e anche in Italia, dove negli anni 70 ha studiato teatro al Piccolo di Milano, con Giorgio Strehler e Paolo Grassi. Ama e traduce Ruzante, Goldoni, Pirandello. Come spesso accade, i cittadini sono più avanti dei politici che li governano: sempre più imprenditori italiani hanno avviato scambi commerciali o produzioni nei paesi del Sud del Mediterraneo, mentre i giovani delle due sponde condividono interessi e idee sui social network, e le università si scambiano le conoscenze. «Tra le persone è ben viva la coscienza di un legame secolare, che è invece ignorata dai governi europei. L’Europa ha dimenticato le sue radici e non si accorge che oggi la povertà è a Nord, non a Sud del Mediterraneo: è in Grecia, è in Spagna, non in Egitto o in Algeria».

Più scettico sull’esistenza di un’identità comune, ma convinto dell’importanza del dialogo tra le due sponde del Mediterraneo per lo sviluppo sociale ed economico dei paesi che vi si affacciano, è Nagy Souraty, giovane drammaturgo libanese, docente universitario e consulente artistico del teatro Al-Madina di Beirut: «Non so se si possa parlare di un denominatore comune. Nello stesso Libano il problema dell’identità e dell’appartenenza è l’ostacolo principale alla soluzione dei conflitti. È vero però che sta crescendo il confronto tra le nuove generazioni e tra i giovani artisti dei diversi paesi». Figlio della buona borghesia libanese (madre insegnante e padre ispettore finanziario in una banca) Nagy vede oggi nel suo paese un arretramento di quella classe media che negli anni 70 diede vita al periodo d’oro della Beirut artistica. «Ma il fermento culturale c’è – dice –. È importante favorire le iniziative che vengono dal basso, fuori dalle istituzioni politiche e culturali». Meglio guardare, aggiunge Pierre Abi Saab, giornalista del quotidiano libanese Al-Akhbar, a fenomeni come l’arte di strada, «il rap soprattutto, che è il vero teatro odierno della contestazione, rivoluzionario come lo fu a suo tempo il Living Theatre: è il Living Theatre di oggi!».

Il Sole 24 Ore 14.03.2010, Inserto DOMENICA