Se il progresso non garantisce più un mondo migliore

di Chris Patten* 

Agosto, mese di vacanze in Europa, non è il momento giusto per fare seriamente politica. E’ sottinteso che, mentre l’Europa riposa, il mondo e le sue preoccupazioni sono chiusi. Di solito io passo questo mese con la mia famiglia nell’antico cascinale che abbiamo ristrutturato nel Sud-Ovest della Francia. E’ campagna profonda. Sto scrivendo nel mio orto, sotto un bersò di uva, a Ovest vedo colline coperte di boschi e nessuna costruzione. Nel nostro piccolo villaggio ci sono una fattoria, un paio di case da vacanza e le rovine di altre sette o otto abitazioni. Un secolo fa questa era una comunità di più di cinquanta persone. Oggi ci sono due residenti fissi, il contadino e la sua vecchia madre. Tutti gli altri sono persone in vacanza.

In Francia il progresso ha portato in tempi abbastanza recenti una migrazione dalle campagne alla città. «Com’è possibile - mi chiese anni fa un allevatore di maiali - che tutti noi locali vogliamo andarcene e voi, abitanti delle città del Nord Europa, vogliate rilevare le nostre fattorie e venirci a vivere?». Questo fa parte, presumo, del sogno del Nord Europa urbano e borghese: la ricerca del sole di giorno e del silenzio di notte.

Anche negli ultimi 15 anni, da quando abbiamo comprato questa cascina dove si coltivava il tabacco, il progresso ha lasciato i suoi segni. Nel nostro villaggio c’erano due esemplari di ogni negozio: due macellai, due panettieri, due ferramenta. Ora ce n’è solo uno. I supermercati nelle città qui intorno hanno messo fuori mercato i piccoli negozi. Immagino che offrano più scelta e probabilmente prezzi più bassi. Così però la vita commerciale è stata eliminata dai piccoli paesi.

Un altro segno del progresso è l’arrivo della connessione Internet a banda larga. Adesso posso usare il mio laptop come fossi a casa a Londra, e la parabola sul tetto ci dà tutte le stazioni radio e tv del mondo. Questo per me è un progresso. Un tempo però in vacanza staccavo completamente, ero protetto dalle intrusioni della tecnologia. Oggi non ci sono scuse. Sono sempre in servizio.

Grazie al nostro televisore, abbiamo potuto seguire i segni che il progresso ha lasciato altrove. Forse le terribili alluvioni in Pakistan e in Cina non sono il risultato diretto del cambiamento climatico. Ma l’evidenza sembra suggerire che le variazioni nelle condizioni climatiche stanno aumentando di scala e di frequenza. Sappiamo che l’aumento di 17 volte nella CO immessa nell’atmosfera nell’ultimo secolo è parte del prezzo della nostra aumentata prosperità e che saranno i più poveri del mondo a portare il peso maggiore dei costi.

In questo mese abbiamo anche potuto vedere in tv quelle che sembrano essere le fasi finali nella battaglia per tappare il pozzo petrolifero esploso al largo della Florida e della Louisiana. Questo disastro ambientale convincerà gli americani a guardare con occhi più seri l’uso sfrenato che fanno dell’energia? Avrà ripercussioni sul loro amore per i motori a combustione interna e l’aria condizionata? Sono incline a dubitarne.

Declinare il progresso in modi che lo rendano sostenibile e ci consentano di mantenere il meglio del passato è difficile. Opporsi alla globalizzazione e alle forze del mercato è spesso stato il modo preferito per cercare di restare aggrappati a un’idea idealizzata di com’era la vita una volta. Questo produce risultati paradossali qui in Francia, dove - nonostante tutta la retorica anti-globalizzazione - McDonald’s è più popolare che in qualunque altro posto in Europa. Le aziende francesi ottengono risultati spettacolari sul mercato globale. In patria, intanto, piccole imprese dal chiaro carattere autoctono - produttori di formaggi, pasticcieri, ristoratori - sono martellati da tasse e costi sociali alti, mentre i supermercati prosperano vendendo prodotti asiatici.

Come possiamo conservare il meglio di ciò che ci è familiare e promuovere l’identità dei nostri quartieri e delle nostre regioni e intanto abbracciare il tipo di cambiamento che fa stare meglio la maggior parte di noi? Come possiamo fare in modo che i mercati e la tecnologia ci servano anziché essere noi al loro servizio - come spesso sembra accadere?

Una soluzione parziale è cercare di dare un prezzo a ciò che chiamiamo progresso. Quali sono, ad esempio, i costi reali dei centri commerciali fuori città in termini di aumento del traffico e perdita di spazi verdi? Ciò che può avere un senso nelle immense distese del Texas non è detto che funzioni nella Francia o nell’Inghilterra rurale. Come possiamo garantire che la tecnologia risponda ai bisogni dei poveri e non si limiti ad aumentare il divario tra gli occidentali che come me possiedono un computer e usano il Blackberry e i poveri dell’India e della Cina?

Soprattutto, quando ci accorderemo per definire i reali costi dell’energia che usiamo, soprattutto i combustibili fossili? Le vittime saranno le future generazioni di alluvionati in Asia e in Cina, i contadini nella Russia e nell’Africa senz’acqua e i nipoti di ciascuno di noi. Che eredità lascerà loro il «progresso» di oggi? Ci piace pensare che le vecchie generazioni lasciano sempre un mondo migliore a chi viene dopo. E’ ancora vero?

*Ultimo governatore inglese di Hong Kong, attualmente rettore dell’ Università di Oxford Copyright Project Syndicate 2010

La Stampa 3 settembre 2010