Così Salvemini recensiva nel 1952
«Un popolo di formiche»

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Le formiche di Tommaso Fiore sono quei piccoli proprietari, fittavoli, giornalieri agricoli, che hanno trasformato la fascia costiera dell'Adriatico da sassaia in giardino di ulivi, viti, mandorli, orti di verdure precoci, e continuano sempre quel lavoro secolare di conquista.

Su quel popolo Fiore scrisse nel 1925 e 1926 quattro lettere per la «Rivoluzione liberale» di Piero Gobetti, e due furono pubblicate da Giuseppe Gangale su «Conscientia». Nel catascio politico, intellettuale e morale di quegli anni borgiani pochi lessero quelle lettere. Oggi esse escono in volume con una piccola prefazione di Gabriele Pepe. Esse documentano, anche nello stile, ricco spesso di strozzature inaspettate e stupende, un pensiero vigoroso chiuso in una prigione da cui si tormenta per uscire. Ha di tanto in tanto qualche luce di speranza, ma le mura della prigione restano sempre lì, immobili. Tragico destino di chi nell'Italia meridionale non intende arrendersi alle influenze mortifere dell'ambiente.

Le sei lettere di Fiore sono un documento storico prezioso per illustrare la penetrazione del movimento fascista nella Puglia meridionale, fra Bari, Taranto e Lecce.

I meridionali non furono essi a creare il movimento fascista; bisogna assolverli da ogni responsabilità al riguardo. Lo accettarono dopo che aveva conquistato il settentrione e il centro d'Italia. Il fascismo meridionale fu quello che era stato il giolittismo meridionale prima del 1914: merce «governativa» e niente altro.

Fiore ci fa sapere che ad Alberobello, la cittadina dei «trulli», il sindaco «massone-socialista-bonomiano» è riuscito, nel 1923, a superare la bufera al passaggio fascismo, «ben singolare animale », del quale non si sa che cosa mai intenda salvare col suo socialismo fascista restando al Comune; ma la virtù di andarsene, cioè di mollar l'osso, non è virtù italiana, anzi da noi anche gli avversari darebbero dell'imbecille a chi lo facesse, poco dopo che Fiore è stato ad Alberobello, anche quel va picco, e scrive un'epistola «ai lavoratori» del suo paese, appellandosi «ai generosi alimentatori del fascismo provinciale» contro gli «austriaci di dentro», cioè i suoi nemici di Alberobello che hanno indotto «le gerarchie» a metterlo a sedere (pp. 29- 33).

Nella provincia di Bari «son rimasto in piedi il voltasacca di Grumo, fascista per girellismo congenito, e il democratico di Triggiano, che ha, credo, abbracciato la croce per non vedere le  cose cambiate nel paese» (p. 30).

La Federazione agraria provinciale di Bari, che non aveva fino all'aprile 1924 meriti fascisti da vantare, minacciata di invasione e distruzione, finì per dare il suo tecnico al listone (nelle elezioni del 1924).

Il partito dei giovani attrasse in provincia un discreto numero di ottantenni in attesa del laticlavio; uno di costoro, un onorevole risorto dopo trent'anni di morte politica, nelle comunali di Trani disse ai suoi seguaci: «Nell'ombra affilate i pugnali, non contate i nemici, li conteremo quando li avremo sterminati» (p. 47).

A Noci il fascio passò cinque o sei volte dalle mani degli uni, i padroni, in quelle degli altri, i rossi, due anni fa esecrati (p. 54): e questo secondo che gli uni o gli altri prevalevano nella federazione fascista provinciale.

A Taranto, Fiore è accompagnato da un archeologo, «massone fino a un mese fa, riveste ora molte cariche fasciste, ed ha bisogno, come è nell'uso italiano, di accumulare vari stipendi, e come egli dice, il mondo è pieno di porcini». Fiore è informato delle violenze e uccisioni commesse dalla «Disperata», la locale squadra, al comando di tal Ferrara: in città e per i tranquilli borghi vicini, «si ricordano le sevizie contro l'avvocato comunista Edoardo Sangiorgi (che già ai tempi di Giolitti aveva conosciuto le carezze dei mazzieri di De Bellis, le umiliazioni incanccellabili inferte a tutti, le persecuzioni partigiane piu spietate contro l'operaio Corsi, morto di crepacuore». Sempre a Taranto, un romanziere «non può perdonare ad Amendola la viltà, dice, di non essere disceso in Parlamento, il 3 gennaio, a pronunziarvi la sua catilinaria; e quanto a lui, io, ci assicura, che non sono un fascista, non sono cosi imbecille da farmi ammazzare per l'uno o per l'altro» (pp. 62-4).

Quasi tutti i deputati ed esponenti attuali del fascismo, sono passati «di punto in bianco, fra il '23 e il '24, dal radicalismo al fascismo, così come in altri tempi avevano tentato di passare al  socialismo, come uno a carnevale si veste da cinese» (p. 74).

A Ginosa «gli agrari patrioti non disdegnarono nel 1919 l'alleanza con le forze popolari a tinte comuniste; ma dopo il '21, in seguito ad agitazioni del bracciantato per aumentare di salario, la  scissione, in difesa dei loro interessi, dove loro sembravano piu patriottica, come d'altra parte, con non minore prudenza, alcuni dei capi comunisti tentarono di rifugiarsi subito sotto le ali del pipismo (partito popolare, precursone della presente democrazia cristiana) e poi del nazionalismo: novembre 1952, sei morti, un fascista e cinque contadini» (pp. 90-91).

A Lecce, un sindaco che era rimasto in carica per venticinque anni, facendo l'acrobata dalla proibizione del crocifisso nelle scuole al patto Gentiloni, è passato dall'antifascismo al filofascismo nelle elezioni politiche del 1924. Un deputato nittiano, ben visto da Bonomi, dichiarò dopo la marcia su Roma che lui non avrebbe mai pensato si dovesse resistere alla marcia suddetta. Il Presidente della Deputazione Provinciale, una volta radicale, e ostentatore di sentimenti antifascisti, ha scoperto che «il fascismo è come l'energia elettrica, che si può sfruttare in ogni modo». Un grande elettore radicale, dopo aver aderito al partito popolare del 1919, ha trasmigrato anche lui nel campo fascista. Un principe annoso ha annunziato che lui era fascista da quando era nato, nel 1848. Ma nessuno prende sul serio nulla. E «i nuovi barbari passarono» (pp. 111-8).

Già nel 1921 si era formata a Taviano un'oasi fascista «per risentimenti agrari». Tre mesi prima della marcia su Roma era sorto un fascio a Gallipoli «dove miserabili predomini semifeudali e una miserabile democrazia socialista, asservita a quelli, avevano dimostrato la insufficienza e la corruttela comuni a tutta la provincia, Cosi il fascismo potè avere i primi capi per i suo quadri, fornitigli dal radicalismo». «Dopo la marcia su Roma i ricconi del posto, a Nardò ea Maglie, incominciarono la gara per entrare», I paesi rossi confinanti col tarentino furono subito  stangati e insanguinati dai tarentini. Gli altri paesi, trattandosi di continuare a stare col governo, entrarono di piano; nella fretta intere sezioni, intere leghe rosse furono inghiottite con tutti i capi.Galatina, socialista e repubblicana, fu consegnata al fascismo solo un anno fa dal fratello del deputato repubblicano del luogo, bisognosa di continuare il dominio settantennale e... tutto fu come prima (pp. 130-1).

Non mancarono qua e là fari luminosi nella notte. A Lecce il vecchio Preside dell'lstituto tecnico rimase inconquistato. Ad Alberobello un amico di Fiore, filosofo, «esemplare piuttosto ra ro nella specie meridionale» (perchè non anche settentrionale?) «si è ritirato a vivere in una casetta di contadini, con la moglie e con Shakespeare» (p. 24). Un tolstiano si è ridotto a «vangare la terra, e vive osservando il Vangelo» (p. 137). Un altro, ateo positivista e anarchico, rinunziò all'insegnamento per non tradire «nè se stesso, ne gli altri; vive con la moglie, vendendo il latte che ricavano dalle loro capre. I fascisti vennero un pomeriggio, non si sa bene perchè, a lontano chiasso; lui fece allontanare la moglie, afferrò un fucile;quelli non entrarono, «Non sanno quel che fanno» - dice la moglie - «non sanno che fanno troppo male alla povera gente» (pp. 137-141). Il «repubblicano Vallone di Galatina è morto senza disdire la sua fede, De Viti de Marco, sopravvive a se stesso «constatando che i suoi migliori amici sono nel fascismo», e «si chiama in colpa di non aver saputo distrarli dall'entrare» (pag. 136). Fari nella notte, ma fari inutili, perché nessuno ha occhi per guardarli. Il faro del repubblicano Vallone non è servito neanche per suo fratello!

Sotto questa versipelle borghesia agraria e intellettuale, nella quale la parte agraria non sapravviverebbe un giorno se non avesse la complicità della parte intellettuale - l'intellettuale è troppo spesso un uomo istruito al di sopra della propria intelligenza - sotto questa verminaia borghese brulica il popolo delle formicbe.                                                                                                           

Fiore vede quelle formiche (tutti gli uomini hanno gli occhi nella testa, ma guanti «vedono»?), «Pochi uomini in un angolo della piazza, immobili, a gruppi e gruppetti, come segregati, silenziosi, vere mandrie fuori della vita. E guardano dai gialli visi stirati, con occhio pecorino, con sguardo d'incredulità, di diffidenza, ma con la fissità caparbia di chi ha una sua idea dentro, una larga ossessionante di idea. Ma come si fa ad avvicinarli, a dir loro una cosa non banale? Tu ci sei estraneo, pare che dicano... Quali vendette meditano in segreto, dietro l'opacità di quegli sguardi, contro i galantuomini del paese, da cui si sentono catturati? Quale taglio clandestino di ulivi e di viti? Quale garrettamento di buoi? Oppure qualche piu vasta ribellione, qualche scoppio d'ira cieco primo segno però del loro distacco dalla realtà che li schiaccia?... A frugare, a rivoltarli di dentro in fuori come sacchi, a sorprenderne gli abbandoni e le confidenze, si può sentire sulle loro labbra solo la ingenua parola giustizia... E' la parola delle plebi, confusa, rozza, improvvisa; non degli altri, ai cui orecchi essa suona come un'offesa, come un'assurdo incongruità» (pp. 95-6). «Timidi, impacciati, chiusi, e appunto perciò capaci delle esplosioni più subitanee» (p. 43). A Gravina «c'è stato un improvviso tentativo di sommossa generale delle plebi, armate, come nelle anticbe sollevazioni, di vanghe, forconi e falci, e le donne tutte aiutavano coi grembiuli ripieni di cenere, e gli altri, si sa, ne hanno avuto ragione con fucili e pistole» (p. 49).

«Dopo la guerra, dopo i contatti coi fortunati lavoratori del Nord, dopo avere intravisto la possibilità di un paradiso di benessere e indipendenza, mai più egli [il contadino) si rassegnera definitivamente all'antico stato, e limita sempre i propri bisogni. In un modo nell'altro, prima o dopo, acquisterà sempre maggiore coscienza di diritti sempre più vasti, sentirà con sempre maggior esasperazione l'intollerabilità della sua abiezione secolare e dell'antieconomicità del suo lavoro presente. Ma quando? come arrivare a questo? Come sollecitare il processo? Mi pare che questa sia la questione» (pp. 97-8).

Quasi trent'anni sono trascorsi. E la domanda è sempre la stessa. Quando? Venga? - Fiore spera oggi le stesse speranze del 1925. Le spera allo stesso modo? Non è così. La recensione è già troppo lunga. Non mancheranno le occasioni per discutere, se a lui ea me non verrà meno la vita.

Il libro di Fiore va letto e meditato dalla prima parola all'ultima parola. Non è solamente un gioiello letterario. E' una bella battaglia morale.

Il Ponte », 8 agosto 1952)