Le lacrime tardive del sovrano che rifiutava di cedere Trento

di OSWALD ÜBEREGGER

uberegger-001
Visto da Vienna L’imperatore Francesco Giuseppe pianse, a quel che si dice, quando il 3 maggio 1915 fu informato della rescissione italiana dalla Triplice Alleanza. «Ebbene, così ora andremo a fondo», pare abbia confidato al capo della sua cancelleria militare. Malgrado fin dai primi di maggio i segni di un conflitto con l’Italia ci fossero già tutti, il 23, quando giunse la dichiarazione di guerra, lo shock fu comunque
forte. Per il capo di stato maggiore Conrad von Hötzendorf, che già prima del 1914 aveva invocato più volte, e con forza, una guerra preventiva contro l’Italia, si trattò di una catastrofe annunciata. Alla domanda del suo omologo tedesco Erich von Falkenhayn su
quando gli italiani sarebbero entrati a Vienna, rispose: «Fra cinque settimane».
La diplomazia austriaca e gli ufficiali dell’imperial-regio esercito tacciarono di tradimento il cambio di alleanza dell’Italia. L’opinione pubblica nella monarchia asburgica prese di mira l’ex alleato e la propaganda di guerra indugiò con l’occhio rivolto all’Italia in stereotipi negativi d’ineguagliabile potenza. Per l’anziano imperatore l’intervento equivalse a un «tradimento di cui la storia non conosce l’eguale». Esercito e diplomazia viennese parlarono concordi di «perfidia» e «disonestà». Concetti, questi, che anche dopo il 1918 e il 1945 giocarono un ruolo centrale nella memoria austriaca della Grande guerra — l’immagine di un’Italia traditrice, disposta a combattere a fianco del miglior offerente, dominò a lungo il ricordoaustriaco dell’entrata in guerra dell’Italia. A dire il vero, le cose erano andate in modo un po’ diverso. 

 Che cos’era successo dallo scoppio del conflitto nell’agosto 1914? Quando a seguito dell’attentato di Sarajevo fu intrapresa un’azione contro la Serbia, la monarchia danubiana e il Reich non coinvolsero l’Italia. L’alleato italiano fu informato solo a posteriori dell’ultimatum inviato alla Serbia il 23 luglio 1914. Ciò violava chiaramente le clausole del patto difensivo, che prevedevano l’obbligo di consultazione. Vienna e Berlino diffidavano dell’Italia. Si temevano indiscrezioni e richieste di compensazione da parte dell’alleato italiano. La violazione dell’articolo 8 del trattato di alleanza aveva tuttavia agevolato Roma nel giudicare a ragion veduta che il casus foederis (la situazione prevista dal patto per un intervento dell’Italia al fianco dei due alleati) non sussistesse. Le richieste di compensazione italiane per i passi mossi da Vienna nei Balcani non si fecero attendere. Ben presto Roma rivendicò — dapprima cauta, poi dal dicembre 1914 sempre più risoluta — il Trentino. Da Vienna giunse un categorico rifiuto. Fu soprattutto l’imperatore che vi si oppose strenuamente. Avrebbe preferito abdicare, disse, piuttosto che cedere il Trentino agli italiani.
 Le rivendicazioni territoriali avanzate dall’Italia nei confronti dell’Austria- Ungheria furono appoggiate dalla Germania. La diplomazia tedesca non cessò di esortare Vienna ad andare incontro alle richieste italiane. Bisognava evitare di spingere l’Italia tra le braccia dell’Intesa. Se convincere Roma a intervenire a fianco degli Imperi centrali era fuori della portata del Reich, la neutralità italiana era tuttavia indispensabile per vincere la guerra. Questa linea fu seguita fino alle sue estreme conseguenze. Quando nel marzo 1915 la situazione si inasprì, agli austriaci venne fatta la cosiddetta «offerta della Slesia »: nel caso in cui la monarchia avesse ceduto il Trentino all’Italia, si intendeva indennizzare l’Austria-Ungheria cedendole dei territori in Slesia.

Ma l’Austria faticò a mutare atteggiamento. Dalla crisi di luglio vigeva irremovibile il veto dell’imperatore e del Consiglio dei ministri austro-ungarico, che si era espresso contro le concessioni territoriali. Vienna temporeggiò e per lungo tempo non prese sul serio le rivendicazioni italiane. «L’Italia è militarmente debole, è vile; non dobbiamo farci trarre in inganno»: queste le parole con cui il presidente del Consiglio ungherese István Tisza riassunse un pensiero diffuso.
L’insipienza viennese finì col fare il gioco dell’Intesa, ben disposta a offrire a Roma ciò che Vienna non intendeva cedere: il Trentino e — oltre a esso — il Tirolo meridionale fino al Brennero, Trieste, Gorizia e Gradisca, l’Istria fino al Quarnero compresa Volosca, nonché la Dalmazia dal confine settentrionale fino alla Narenta. Il patto di Londra, siglato il 26 aprile fra il governo italiano e i rappresentanti dell’Intesa, impegnava l’Italia a entrare in guerra entro un mese dalla sua firma. Dal marzo 1915 l’Italia condusse trattative con l’Intesa e parallelamente— anche se solo fittizie — con l’Austria-Ungheria. Francesco Giuseppe aveva rinunciato al suo atteggiamento intransigente e si pronunciò infine, sebbene a malincuore, per la cessione del Trentino. Troppo tardi. Quando l’Italia nell’aprile del 1915 rilanciò rivendicando il confine sul Brennero, il Friuli austriaco e il territorio intorno a Trieste, la monarchia non fu in grado di tenere il passo. L’Italia entrò in guerra a fianco dell’Intesa. 
Con l’apertura del fronte italo-austriaco, il 24 maggio 1915, la guerra entrò in una nuova fase. Che cosa sarebbe stato se l’Italia non fosse entrata in guerra a fianco degli Alleati? Roma sarebbe rimasta neutrale nel caso di una cessione del Trentino nell’estate 1914? Fu l’Italia — come credono certi storici — il fatidico ago della bilancia che decise da ultimo la sconfitta degli Imperi centrali? Sono tutte domande controfattuali cui non è possibile dare una risposta. Ciò che invece rimane assodato è che la Grande guerra e soprattutto le sue conseguenze furono una catastrofe per entrambi i Paesi. La monarchia danubiana implose, e l’Italia, a causa del declino del sistema politico liberale e dell’ascesa al potere di Mussolini, scivolò verso una nuova, e ancora piùgrande, catastrofe.
La lettura #165 16.11.2014