Vittorio Veneto: la propaganda vestita da battaglia

di Nicola Ferri*

Casa_sinistrata_Piave

L'epica battaglia di Vittorio Veneto non c’è mai stata poiché si trattò di un’invenzione propagandistica dello Stato Maggiore per far credere, soprattutto agli Alleati, che le nostre truppe, nell’avanzata travolgente verso il Nord dopo l’attraversamento del Piave, avevano sbaragliato l’esercito austro-ungarico conquistando dopo una durissima lotta un fondamentale obbiettivo strategico.


Un nome epico dal suono trionfale

Vittorio era un piccolo comune che il 27 settembre 1866 aveva assunto quel nome in onore di Vittorio Emanuele II, primo Re d’Italia, e che le nostre avanguardie sorpassarono nella notte fra il 30 e il 31 ottobre 1918 senza incontrare alcuna resistenza, per proseguire velocemente verso Trento e Trieste. Indro Montanelli (Storia d’Italia, vol. 6°, pag. 598) racconta che, alla vigilia dell’ultima avanzata, il Capo di Stato Maggiore Generale, il napoletano Armando Diaz, all’inizio non sapeva neppure dove si trovasse quel luogo da tramandare alla Storia: era stato deciso infatti, a tavolino, che una immaginaria battaglia finale contro gli austriaci si sarebbe chiamata proprio con quel nome, che, si diceva, suonava bene perché avendo in sé il concetto della vittoria, sarebbe stato facile da ricordare.

Diaz però voleva identificarne l’ubicazione sulla carta geografica del Veneto: curvo sulla grande mappa egli ne scorreva tutti i paesi, senza riuscire a trovare quello dal nome fatidico. Allora, infastidito, sbottò nella celebre esclamazione in dialetto partenopeo: “Nè, ma ‘stu Vittorio Veneto addò cazzo sta?” (la frase fu riferita più tardi anche da Ferruccio Parri, futuro Presidente del Consiglio e da Giovanni Gronchi, futuro Presidente della Repubblica che, all ’epoca, facevano parte dello staff di Diaz.

L’esercito nemico in rotta

Le truppe del Feldmaresciallo Svetozar Boroevic, comandante del Gruppo D’Armate Est (lo chiamavano il “Leone dell’Isonzo” per la sua strenua resistenza contro gli attacchi frontali di Cadorna nel 1915-1917), dopo una prima opposizione sul Piave nei giorni dal 24 al 28 ottobre 1918, il 30 ottobre cominciarono a ritirarsi, e molti reparti, specie quelli ungheresi, sloveni e bosniaci, si sfaldarono e si diedero ad una fuga disordinata per accorrere, come dicevano agli ufficiali, a difendere le loro patrie. Il tenente austriaco Fritz Weber, comandante di una batteria di obici, autore del volume Tappe della disfatta, Mursia 1965 dopo avere combattuto fin dall’in izio della guerra sul fronte d el l’Isonzo partecipò alle ultime operazioni di fine ottobre 1918, quando le truppe italiane, superati dopo aspri combattimenti il Piave e il Tagliamento, sfondarono le residue linee di resistenza dei circa seicentomila austriaci, ormai un esercito in rotta che in pochissimo tempo cessò di esistere come forza combattente perché molti soldati si diedero prigionieri, molti altri si sbandarono nelle campagne e i restanti si precipitarono verso il confine “abbandonando nella fuga non solo le armi e il materiale, ma l’orgogliosa baldanza dei tempi trascorsi e la stessa fedeltà all’idea imperiale” (così Aldo Valori nella prefazione al libro).

L’armistizio e il vuoto nei manuali

Alle 7,15 del 29 ottobre il capitano austriaco Kamillo Ruggera, accompagnato da un trombettiere e da un soldato semplice, era uscito dalla trincea della Val Lagarina sventolando una bandiera bianca: recava un messaggio del Generale Alexander von Krobatin che dichiarava la fine delle ostilità e chiedeva di firmare un armistizio. Come riferisce Lorenzo del Boca (Maledetta guerra, 2015, pag. 279) “L’iniziativa provocò una crisi di nervi. L’Italia aveva bisogno di un successo militare conquistato sul campo e quella proposta, accorciando i tempi, mandava all’aria i propositi bellicosi dei comandi militari e dei politici di Roma”. Le trattative della resa furono perciò mandate per le lunghe, finchè il 3 novembre alle ore 3 si riuscì a firmare l’armistizio con la clausola che esso sarebbe entrato in vigore alle ore 3 del 4 novembre: 24 ore di tempo erano necessarie ai bersaglieri ciclisti per entrare prima a Trento e poi a Trieste, e al nostro Comando supremo di sbandierare dinanzi agli Alleati la “Grande vittoria” contro gli austroungarici per la liberazione delle Città irredente. Nessuno degli storici stranieri della Prima Guerra Mondiale ha mai accennato ad una “Battaglia di Vittorio Ve neto”; V. per tutti A.J. Percivale Taylor (Storia della Prima Guerra Mondiale, 1969, De Agostini). In Italia, già nel 1920 Giuseppe Prezzolini (Dopo Caporetto Vittorio Veneto, ristampa 2015 con prefazione di Emilio Gentile, Edizioni di Storia e Letteratura, pag. 137-142) scriveva: “A Vittorio Veneto c’era un nemico che si ritirava. Vittorio Veneto è una ritirata che abbiamo disordinato e confuso: non una battaglia che abbiamo vinto. Questa è la verità che si deve dire agli italiani: la verità che gli italiani debbono lasciarsi dire”…La battaglia di Vittorio Veneto è andata, su per giù, secondo i progetti dello Stato Maggiore. È un peccato che sia mancato, in questa battaglia, il nemico, altrimenti potrebbe diventare classica nei manuali di strategia”.

Il colpo di coda del “Leone dell’Isonzo”

Si può aggiungere che neppure altri autorevoli storici come Giorgio Candeloro (Storia dell’Italia moderna, vol. 8° pag.220) e Niccolò Rodolico (Storia degli Italiani, 1964, pag. 1026) accennano ad una battaglia di Vittorio Veneto, limitandosi ad annotare che il giorno 29 ottobre le avanguardie dell’VIII Armata raggiunsero Vittorio Veneto: in effetti, davanti a loro non c’era più nessuno perché il 28 ottobre “l’esercito austro-ungarico scomparve. Letteralmente”. (Giovanni De Luna, Bad oglio, 1974, pag. 70). Per Piero Pieri, uno dei maggiori storici della Grande Guerra, “Le retrovie (austriache) sono in dissoluzione; tre grandi contrattacchi nemici non hanno luogo proprio lungo la direttrice Vittorio Veneto-Ponte della Priula, dove la minaccia italiana è più grave…” (Storia della prima guerra mondiale, Eri Edizioni Rai 1965, pag. 180). Lo stesso Pieri, nella rassegna dettagliata degli eventi di fine ottobre - primi di novembre 1918 (L’Italia nella prima guerra mondiale, Einaudi 1965 pagg. 196-197) ricorda che l’ultima accanita resistenza degli austriaci si ebbe il 29 ottobre sul Grappa (dove già si erano registrati numerosi episodi di ribellione di reparti austroungarici), uno scontro in cui la nostra quarta Armata italiana dovette purtroppo registrare 5000 caduti, 20.000 feriti e 3000 prigionieri. Fu il colpo di coda del Federmaresciallo Svetozar Boroevich soprannominato il “Leone d el l ’Isonzo per la strenua resistenza contro gli attacchi frontali di Cadorna poiché – racconta sempre Pieri – “la decisione precipita sulla fronte dell’ottava Armata: il mattino del 29 l’VIII Corpo (d’Armata) ha passato il fiume sacro e prende Susegana, mentre il XVIII Corpo (d ’Armata) s’impadronis ce di Conegliano: la sera una colonna celere di Cavalleria dell’VIII Corpo è a Vittorio Veneto…il 30 l’ottava Arma ta, padrona di Vittorio Veneto, inizia la vasta manovra di aggiramento della fronte montana nemica”.

La relazione dello Stato Maggiore austriaco

È interessante ricordare che la Relazione ufficiale dello Stato maggiore austriaco sulla condotta della guerra nei giorni della disfatta precisa: “Alle ore 24 (del 30 ottobre) i difensori di Col Caprile, dell’Asolone, del Pertica e dello Spinoncia prendono commiato da quelle quote insanguinate. A loro resta soltanto la gloria di avere combattuto fino all’ultimo momento anche senza ricevere rinforzi dalle retrovie e di avere riportato l’ultima vittoria difensiva di un esercito ormai agonizzante, mentre alle loro spalle dilagava la più completa anarchia”. Questa citazione è tratta dal documentatissimo saggio di Pier Paolo Cervone intitolato a Vittorio Veneto, L’ultima battaglia (1994) in cui, malgrado il titolo, non c’è nessuna prova di una battaglia combattuta tra il 29 e il 31 ottobre in quelle contrade. Infatti, secondo la testimonianza di Guelfo Civinini ripresa dall’autore, i Bersaglieri ciclisti, i Lancieri di Firenze e le truppe dei generali Grazioli e Vaccari fecero il loro ingresso a Vittorio in un’atmosfera di gioiosa frenesia, mentre le campane suonavano a festa e nella piazza affollata faceva ingresso anche la Cavalleria arancione e qualcuno annunciava che il nemico fuggiva verso il lago di Santa Croce mentre in lontananza si sentivano sparare “di tanto in tanto” delle mitragliatrici: un quadretto in cui non c’era neppure una eco di precedenti, aspri combattimenti dei quali gli abitanti del luogo parlarono in seguito soltanto per sentito di re, e che sarebbero stati evocati nuovamente qualche anno dopo allorchè a “Vittorio”, con il Regio Decreto 22 luglio 1923 n.1765, venne conferito ufficialmente il nome di “Vittorio Veneto”.

La leggenda alla base della retorica fascista

Il mito della “Battaglia di Vittorio Veneto”, ormai radicato nella memoria collettiva della Grande Guerra sopravvisse a lungo, anche grazie alla retorica fascista sulla Vittoria del 1918. Una leggenda che, in anni più recenti ha affascinato anche Giacomo Properzj il quale nella sua brillante sintesi dello spaventoso conflitto mondiale (Breve storia della grande guerra, Mursia 1913), rappresenta così l’importante evento (pag. 141): “Vittorio Veneto, nome che fu l’ultima battaglia di quella guerra di movimento con l’avanzata delle prime autoblindo sulle quali, tra gli altri, stava Filippo Tommaso Marinetti, fondatore del futurismo”. Ma occorre precisare che la Cavalleria, vittoriosa nella battaglia sul Piave, in quelle ore, come abbiamo visto, non stava combattendo ma semplicemente inseguendo reparti austriaci sbandati, mentre Marinetti, che con la sua autoblindo tallonava gli austriaci in rotta, era entrato non a Vittorio ma a Tolmezzo (v. Fulvio Senardi, Il Mensile, 12/6/2015) che dista da Vittorio 143 chilometri e si trova da tutt’altra parte.

Deve comunque riconoscersi che “Vittorio Veneto”, cui molti Comuni tra cui Roma dedicarono strade e piazze, rimase definitivamente scolpito nell’immaginario collettivo come la Madre di tutte le battaglie vittoriose della Grande Guerra ” , tanto che, Benito Mussolini, giunto in treno quella fatale mattina del 30 ottobre 1922, salendo al Quirinale per ricevere dal Re l’incarico di formare il nuovo governo, nel salutare il Sovrano sembra che abbia detto: “Maestà, vi porto l’Italia di Vittorio Veneto!” (in seguito Giacomo Acerbo, che era presente, diede conferma della frase: v. Antonino Repaci, La Marcia su Roma, Vol. 1, Rizzoli Editore 1972, pag. 567). Fu quello il coronamento di una Rivoluzione, quella fascista, anch’essa frutto di una leggenda perché per conquistare Roma nessuno aveva combattuto, non c’erano state cannonate, né morti né feriti, e non si era mai visto che il Capo di una insurrezione viaggiasse comodamente in un vagone letto per andare a raccogliere, indossando la marsina, le insegne del Potere. Ma questa è un’altra storia…

*Ex magistrato