L'uomo senza nome e senza passato inghiottito nelle viscere del vulcano

di Attilio Bolzoni

MauroI

Lo scheletro era nascosto in fondo a una grotta sul versante orientale dell’Etna, il fianco della montagna che precipita nel ma Ionio. Il corpo è stato trovato in alta quota dal pastore tedesco Halma. Una serie di suggestioni hanno fatto pensare che fosse il cadvere del giornalista Mauro de Mauro. Ma non tutti i dettagli coincidono e per risolvere  il mistero ogni indizio può diventare quello decisivo

Intorno a un cadavere e su un cadavere c’è qualcosa che può raccontare la vita e la morte di un uomo sconosciuto. Piccoli indizi. Al suo polso sinistro un orologio Omega, le lancette ferme sulle 10,55. In una tasca della sua giacca vecchie monete da cento lire coniate nel 1977, nell’altra tasca un pettine con custodia in pelle. Accanto allo scheletro una bottiglia di vetro mezza piena d’acqua avvolta in una pagina di giornale del 1978, sette colonne di notizie economiche e due colonne con i necrologi di giornata. Undici gli annunci funebri, undici i nomi sottolineati con una penna. Le sue ossa sono ancora tutte intatte e regolari, tranne quelle nasali che presentano una rara malformazione congenita. Nessun segno apparente di violenza, nessuna frattura. Uno scheletro anonimo ed elegantemente vestito. Pantaloni neri di pregiata fattura, una camicia bianca con sottili righine verticali di colore grigio, un maglione scuro e una cravatta scura, una mantellina di nylon verde oliva, un cappello di lana con pon pon. E vicino a quelli che una volta erano i piedi, un paio di scarponcini numero 41 marca Pivetta, calzatura per escursionisti. Nient’altro. Patente, carta d’identità, una lettera, una foto di famiglia. Niente. Quanti anni aveva l’uomo? Presumibilmente cinquanta. Quanto era alto? Presumibilmente un metro e settanta. Da quanto tempo era morto? Presumibilmente da quarantaquattro anni. Presumibilmente, è tutto quello che sappiamo di lui. Il rinvenimento è avvenuto la mattina di martedì 7 settembre ma l’hanno reso noto cinque settimane dopo, lunedì 11 ottobre. Il corpo era in fondo a una grotta sul versante orientale dell’Etna, il fianco della montagna che precipita nel mar Ionio.

Il fiuto del pastore tedesco

Halma, un pastore tedesco femmina, anche quella mattina sembrava tranquilla, scodinzolava, inseguita sulla schiena del vulcano da tre esperti arrampicatori del soccorso alpino della guardia di finanza. Un’esercitazione come tante in quel mondo nero e infinito che è il “Mongibeddu” quando faticosamente viene scalato verso le sue bocche, sterminate distese di rocce aguzze, castagni e querce, un po’ più giù le macchie dorate delle ginestre, le tracce solidificate delle lingue di fuoco delle antiche eruzioni e gli “ingrottamenti” creati dalla lava nei secoli. Grotta del Turco, Grotta del Coniglio, Grotta dell’Acqua Vitale, Grotta delle Femmine, Grotta del Gelo, Grotta dei Buoi, Grotta del Fumo, Grotta dei Ladroni e Grotta dei Lamponi, ce ne sono duecento e più sparse nelle pareti che avvolgono l’Etna, attrazione magiper turisti e fenomenali “stanze” di studio per geologi e geofisici. «Quel giorno stavamo simulando la ricerca dei miei colleghi dispersi e Halma ci ha segnalato questo posto. Io lo sapevo che i miei colleghi non erano lì e quasi quasi stavo perdendo la pazienza con Halma perché il cane cercava dove per me non c’era nessuno», ricorda Nicola Leo, conduttore dell’unità cinofila della Finanza di Nicolosi. uomini, mafiosi. Una lupara bianca, il sequestro senza ritorno. Collegamenti suggestivi Il collegamento Ha pensato che Halma fosse un po’ irrequieta, distratta. «E invece aveva puntato dritto dove aveva sentito l’odore del cadavere», dice Gianfranco Lombardi, l’altro finanziere. Halma si è infilata in una di queste lunghe gallerie, in località Cassone, territorio di Zafferana, 1400 metri di altitudine lungo il sentiero che porta al rifugio Sapienza. Il fiuto del pastore tedesco ha guidato quelli del soccorso alpino nel punto più buio della caverna. E così è stato trovato lo scheletro, il morto senza nome. I suoi resti li hanno raccolti in un angolo umido, non molto lontano da una piccola colonia di pipistrelli. Anche De Mauro era claudicante e aveva una malformazione al naso

Mauro De Mauro

Ossa. Fotografate, repertate, trasportate all’istituto di medicina legale. I finanzieri hanno prima inviato una segnalazione al loro comando e poi un rapporto alla procura della repubblica di Catania. Sono cominciate le indagini, eseguiti i primi rilievi antropometrici, partite le prime verifiche negli archivi. Quante denunce di scomparsa ci sono state a Catania e nella sua provincia fra il novembre e il dicembre 1978? Quanti uomini sono spariti e quanti sono tornati a casa in quei sessanta giorni? Il campo della ricognizione si è ristretto dopo il referto trasmesso dal medico legale: «Dovete cercare solo uomini con quella malformazione al setto nasale, con un’anomala distanza fra le orbite oculari, con un’imperfezione a uno degli arti inferiori...». La vittima era claudicante. Ogni informazione in possesso degli investigatori è stata diffusa in attesa che qualcuno – familiari o amici – potesse farsi avanti con un dubbio, con un’ipotesi sull’identità dell’uomo. Il giorno dopo centinaia di telefonate sono arrivate al centralino della guardia di finanza, quelle giudicate “meritevoli di approfondimento” non più di dieci. Sono bastate però queste poche notizie divulgate dai giornali per attirare attenzioni e riaccendere speranze. Come quella dei legali di Franca De Mauro, una delle due figlie del giornalista de L’Ora scomparso a Palermo la sera del 16 settembre 1970. Rapito sotto casa, in via delle Magnolie, da tre o quattro uomini, mafiosi. Una lupara bianca, il sequestro senza ritorno.

Collegamenti suggestivi

Anche Mauro De Mauro era claudicante e aveva una malformazione al setto nasale, causata forse da un brutto incidente automobilistico (qualcuno dice dalle parti di Verona, qualcun altro all’incrocio fra la via Aniene e la via Salaria a Roma) o – come vogliono alcune voci – da un violento pestaggio subito dai partigiani subito dopo l’armistizio di Cassibile e la resa incondizionata dell’Italia agli Alleati. Il giornalista aveva un passato oscuro, volontario nella Repubblica di Salò del principe Valerio Junio Borghese, prima di trovare riparo in Sicilia era stato un collaboratore del regime fascista. Un ambiente nel quale, un paio di settimane prima del suo rapimento, avrebbe appreso la notizia della preparazione del golpe dell’Immacolata del 1970 (o quella che venne definita la notte di Tora Tora, in ricordo dell’attacco giapponese a Pearl Harbor del 7 dicembre 1941) proprio dai suoi ex commilitoni. «Ho in mano uno scoop che farà tremare l’Italia», sono state le sue ultime parole pronunciate in redazione. Da quel momento nessuno l’ha più visto. Né al giornale L’Ora né a Palermo. “Il cadavere dell’Etna è quello di Mauro De Mauro?”, ha titolato più di un quotidiano. Ma il procuratore di Catania Carmelo Zuccaro ha sùbito smentito: «Non vi è ancora nulla sull’identificazione». Un naso storto e collegamenti suggestivi. L’età dell’uomo della grotta coincide in effetti con quella di De Mauro al momento della sua scomparsa, nato nel 1921, nel giorno del rapimento aveva 49 anni. Ma è il solo dato che corrisponde alle caratteristiche del cadavere dell’Etna, tutte le altre tracce non sembrano portare al giornalista. La malformazione congenita al setto nasale non dovuta a traumi, innanzitutto. E poi la presenza di quel pettine e di quell’orologio Omega, oggetti non riconosciuti dai familiari.

L’imprenditore e l’usciere

E poi ancora il tempo trascorso dal suo sequestro a quel foglio di giornale del 15 dicembre 1978, otto anni e tre mesi. Troppo. Chi avrebbe mai tenuto prigioniero il giornalista, dall’altra parte della Sicilia, dal 1970 al 1978? E perché? Inverosimile. «In ogni caso noi indagheremo ancora su questa vicenda sino in fondo perché non vogliamo tralasciare niente», spiega il colonnello Massimiliano Pacetto, che è il comandante della guardia di finanza di Catania. La procura della repubblica intanto ha ordinato un esame comparativo del dna sullo scheletro per verificare, al di là di ogni ragionevole dubbio, se quei resti siano di Mauro De Mauro. Si esplora tutto, si esclude nulla. Nemmeno l’improvvisa scomparsa di un imprenditore edile palermitano all’inizio di quel 1978. O l’inspiegabile sparizione di un usciere del tribunale di Catania, avvenuta nel giugno di quello stesso anno. Altri esami – affidati ai medici legali e ai reparti specializzati, la sezione Investigazioni scientifiche dei carabinieri – dovranno accertare se l’uomo della grotta è stato vittima di un omicidio o se in quell’anfratto vi è entrato volontariamente come appare più probabile. Forse per suicidarsi. O per curiosità, senza più riuscire a venirne fuori. Prove di laboratorio che s’intrecciano con le investigazioni. Sull’orologio che aveva al polso. Quante e quali gioiellerie lo vendevano quasi mezzo secolo fa dappertutto ma solo in alcuni selezionati negozi. Comunque vestiti non adatti per salire in alta quota, troppo leggeri, un escursionista esperto non si sarebbe mai avventurato sul vulcano – e soprattutto a dicembre, in pieno inverno – coperto o meglio scoperto in quel modo. E poi gli undici necrologi evidenziati con la penna.

Gli undici morti

La pagina del quotidiano La Sicilia datata 15 dicembre 1978 è una pagina di economia e finanza con a sinistra qualche titolo (“La lira tiene bene”, “Incentivazioni per industrie nel Mezzogiorno”, “Ancora nulla di deciso per gli aumenti Rc Auto”) e a destra lo spazio riservato agli annunci funebri. Sono diventati il cuore della materia d’indagine. Gli investigatori credono che negli undici nomi ci sia la risoluzione del giallo, la spiegazione della morte dello scheletro ricomparso. Il primo necrologio è del rettore e dei componenti del consiglio di amministrazione dell’università di Catania “che partecipano al profondo cordoglio del professore Antonio Arcoria per la morte della madre signora Barbara Finocchiaro, vedova Arcoria”. Nel secondo necrologio, “la moglie Carmela, i figli Guglielmo, Francesca, Rossana, le nuore e i nipoti tutti affranti piangono la morte del Nobil Homo Commendator Dottore Saverio Betto”, che era un notabile di Scicli, paese in provincia di Ragusa. Il terzo dà notizia ”della dipartita del geometra catanese Paolo Pavone”, il quarto della signora Concetta Cucurullo Viganò in Duca, il quinto di Salvatore Lentini che era il padre di un medico dell’ospedale di Avola (provincia di Siracusa), il sesto del catanese Bernardo La Mari, il settimo di Florina Impalà vedova Murabito abitante ad Acireale. E ancora della professoressa Palma Brunelli, del Cavaliere Edmondo De Marco, della signora di Giarre Emilia Leotta e del medico catanese Paolo Rapisarda. Un professore, un geometra, un medico, due casalinghe… tutti originari della Sicilia orientale, tutti uomini e donne dalle storie apparentemente distanti – se non per la vicinanza temporale della morte – ma che adesso vengono inesorabilmente unite dal mistero dell’Etna. Si scava nelle relazioni di queste persone decedute più di quattro decenni fa, si cercano contatti fra loro e soprattutto contatti fra loro e l’uomo della grotta. Si è tolto la vita, sconvolto dal dolore per una di quelle morti avvenute a metà dicembre 1978? Una donna? Un amico? Un parente? I familiari e gli eredi di quei defunti sono stati rintracciati e, uno dopo l’altro, saranno ascoltati dai finanzieri. Chissà se disveleranno il mistero del cadavere “resuscitato” dal fiuto del pastore tedesco Halma. I manicomi chiusi Un’altra pista che si segue è quella degli ospiti dei manicomi, liberati in quel maggio del 1978 dalla legge numero 180 più nota come legge Basaglia dal nome dello psichiatra veneziano – Franco Basaglia – ispiratore del concetto moderno di salute mentale. Gli investigatori non tralasciano nemmeno questa pista: l’uomo della grotta potrebbe essere uno di quei pazienti, senza casa e senza famiglia, usciti 44 anni fa in massa dai manicomi. S’indaga dappertutto, su ogni voce e su ogni dettaglio. Era un uomo in fuga. Ma da cosa? E da chi? Braccato, aveva trovato rifugio in un luogo dove nessuno l’avrebbe mai cercato? E la mafia? C’entra qualcosa la mafia con l’enigma dell’Etna? Sono tanti gli uomini inghiottiti nel silenzio degli anni Settanta catanesi, all’inizio di una guerra fra famiglie che sarebbe esplosa da lì a poco ancora più violentemente. I morti di mafia Il vulcano custodisce molti intrighi mafiosi. E non è la prima volta che le sue viscere nascondono trame di cosche, vendette di boss. E cadaveri. Uno fu ritrovato nel 1972, ad agosto, quasi di fronte a monte Spagnolo in territorio comunale di Randazzo. Anche lui sepolto dentro una caverna, la “Grotta del Burrò”, a quota duemila, cavità ripida, una galleria lunga più di 200 metri e con ramificazioni che la fanno sembrare un labirinto. Il pastore Nunzio Spartà, un giorno di quell’estate di cinquant’anni fa, entrò nell’anfratto «per bere acqua fresca che si raccoglieva all’ingresso della grotta» e vide un uomo disteso «che sembrava dormire». Ma era morto, a terra c’era del sangue. Il pastore corse in paese, a Randazzo, e avvertì i carabinieri. Con una jeep salirono sulla montagna insieme al pretore del tempo Alfio Pagano, poi tutti insieme si arrampicarono a piedi fin lassù e scoprirono che quell’uomo era stato ucciso da un colpo di lupara. Non aveva documenti, non era di Randazzo, nessuno lo conosceva. «È l’omicidio di un forestiero capitato chissà come qui sull’Etna», dissero gli investigatori. I giornali dell’epoca riportarono scarni particolari perché scarne erano le informazioni su quel cadavere. Titolo del quotidiano La Sicilia tre giorni dopo il rinvenimento del cadavere: “Per l’omicidio di Randazzo si brancola ancora nel buio”. Sommario: “È stato soltanto accertato che lo squarcio alla gola è stato provocato da una fucilata esplosa da distanza ravvicinata e non da una coltellata, non si conoscono i nomi della vittima e dell’assassino né il movente del delitto”. Testo dell’articolo: “Era piuttosto aitante, robusto ma non obeso, dalla carnagione chiara e dai capelli biondi ma abbondantemente brizzolati, il viso ovale, le mani prive di callosità e con le unghie piuttosto lunghe e ben curate..”. Non fu rapina. Perché nella tasca posteriore dei pantaloni della vittima c’erano 30mila lire. Fu regolamento di conti. Adescato con l’inganno nella grotta e poi fatto fuori. Ancora oggi su quel morto si sa niente, ignota la sua identità e ignoti i suoi assassini. Come il morto e come i sicari del 1973, l’anno dopo. Sempre d’estate, a luglio. Sempre dentro una grotta. Quattro escursionisti si avventurarono sino a monte Frumento Supino, la terza cima dell’Etna con i suoi 2.845 metri, e all’interno di una bocca vulcanica un pomeriggio trovarono un cadavere. Era lì dall’inverno precedente, sepolto dalla neve. Quando il sole l’ha sciolta è riapparso. Accanto al cadavere c’era un revolver, nel tamburo mancavano due pallottole. Un altro delitto, un altro uomo ammazzato e senza nome. Un altro segreto del vulcano. © RIPRODUZIONE RISERVATA