55 anni dalla scomparsa di uno dei teorici del Manifesto di Ventotene

Intellettuale antifascista e liberale, perché a questa Italia servirebbe ancora un Ernesto Rossi

di Alessandro De Nicola

17. Ada ed Ernesto nella fucina di Chantepoulet kgQC U432805077370438hE 1224x916Corriere Web Sezioni 593x443

Ernesto Rossi e con la mogliae Ada a Ginevra 1944

Aria fritta è il titolo di uno dei libri più famosi di Ernesto Rossi, il grande intellettuale prestato alla politica del quale oggi, 9 febbraio, ricorre il cinquantacinquesimo anniversario della morte, avvenuta a Roma nel 1967.

Rossi nacque a Caserta nel 1897, figlio di un ufficiale piemontese, e crebbe a Firenze. Scoppiata la Prima guerra mondiale, nel 1916 si arruolò appena diciannovenne, andò al fronte e fu gravemente ferito. La sua esperienza bellica, i sacrifici e la solidarietà con i commilitoni lo avvicinarono al fascismo, la forza politica che nel dopoguerra sembrava essersi presa sulle spalle la difesa dell’onore dei combattenti.
Il giovane Ernesto collaborò per quasi 3 anni al Popolo d’Italia, il giornale di Mussolini, ma già nel 1922, grazie all’incontro con lo storico Gaetano Salvemini, si rese conto della pochezza intellettuale e della pericolosità del Littorio. Laureato in giurisprudenza, cominciò a insegnare economia e scienza delle finanze alle scuole superiori, senza perdere di vista l’attività pubblicistica antifascista che lo costrinse ad un breve esilio francese nel 1925. Rientrato in Italia a seguito dell’amnistia del 25 luglio di quell’anno, aderì a Giustizia e Libertà continuando a studiare, pubblicare (collaborò con la rivista del suo maestro Luigi Einaudi, La Riforma Sociale) e... complottare. Negli scritti di quel periodo maturò una critica durissima non solo contro lo statalismo e il corporativismo e a favore del liberismo, ma anche contro l’intreccio tra l’industria privata e lo Stato. Nel 1930 fu arrestato mentre stava tenendo lezione in classe e fu condannato a una pena durissima, vent’anni, di cui nove scontati nelle «patrie galere» e dal 1939 al confino nell’isola di Ventotene per altri quattro, dove, insieme ad Altiero Spinelli, scrisse quel che è passato alla storia come il Manifesto di Ventotene, appello che divenne la base ideale del federalismo europeo.

Alla caduta del fascismo, Rossi venne scarcerato e dopo qualche mese riparò in Svizzera. Alla liberazione prima fu nominato sottosegretario alla Ricostruzione nel governo Parri in quota Partito d’Azione e poi presidente dell’Agenzia che vendeva i residuati bellici dove applicò in pieno il suo liberismo, istituendo gare pubbliche competitive per piccoli lotti al fine di evitare accaparramenti e spuntare il miglior prezzo.
Nel dopoguerra, la produzione intellettuale di Ernesto Rossi e la sua notorietà impennarono. Collaborò al Mondo di Panunzio, dal 1949 al 1962, scrisse numerosi libri con titoli caustici (il già citato Aria Fritta, Abolire la miseria, I padroni del vapore, Settimo: non rubare, Il malgoverno, Manganello ed aspersorio, Borsa e borsaioli, Pagine anticlericali) che accendono molte polemiche, anima dibattiti pubblici con gli Amici del Mondo (famoso quello su La lotta ai monopoli del 1955), è uno dei fondatori del Movimento Federalista Europeo e poi del Partito Radicale.
Qual è il lascito di questo «testimone impegnato» per utilizzare una definizione di Raymond Aron? Il percorso intellettuale di Rossi si evolve, passando da un iniziale liberismo ad una forma più prossima al liberal-socialismo (anche se alcuni convincimenti, come la sanità e l’istruzione fondamentalmente gratuite, oggi non sono messi in discussione da nessuno) ma la costante del suo pensiero è la diffidenza verso i “poteri forti”, tutti.

Lo Stato in primis, prima quello fascista e poi quello partitocratico; l’intreccio tra il capitalismo e il governo che crea monopoli, persegue una privatizzazione degli utili e una pubblicizzazione delle perdite e soffoca la concorrenza (Rossi ebbe a dire che non era affatto preoccupato che gli imprenditori – che considerava «gli eroi della rivoluzione economica» – guadagnassero troppo, ma gli interessava che non rubassero); il sindacato; la Chiesa e il suo potere temporale ora esercitato non più con il dominio diretto ma ottenendo privilegi dalla politica (addirittura temeva che l’elezione di Kennedy rappresentasse un pericolo di espansione di potere del cattolicesimo nel mondo: va beh, ogni tanto esagerava); l’impresa pubblica e semi-pubblica come la Federconsorzi. Un combattente pugnace, radicale, armato di rigore intellettuale e nessuna riverenza verso ogni potere costituito. È di figure come la sua che oggi si sente la mancanza: è giusto onorarne almeno il ricordo.

La Stampa 9 febbraio 2021