Piero Gobetti e l’Italia dei tempi presenti

di Paolo Bagnoli

gobetti

La rivoluzione liberale, la riacquisizione del significato libertaristico della libertà, sembra suonare ancora come una parola d’ordine e un imperativo categorico per quel futuro migliore, per quell’Italia più giusta, più civile e più moderna per cui, prima di noi, in tanti hanno lottato tutto gettando nella lotta fino al sacrificio della vita talora; per questo Gobetti parla ancora all’Italia di oggi come parlerà a quella di domani.

Il destino di Piero Gobetti è stato quello di aver avuto una vita breve e una bibliografia su di lui assai lunga, come forse è toccato in sorte a nessun altra personalità del nostro Novecento; una bibliografia, sia accademica che pubblicistica nella quale il tema della sua “attualità” torna sovente.

E’ veramente uno strano destino; non perché Gobetti non sia, per tantissimi aspetti della nostra vita collettiva, di stringente attualità, ma questa, ahimé!, non sembra aver mai preso corpo. La conferma ci viene dal fatto che, se invece fosse successo, più che di “attualità” potremmo parlare di “realizzazione”. Così non è; così non sembra essere alle porte e, quindi, si continuerà a parlare di “attualità” di Piero Gobetti intendendo, con il termine, un’aspirazione, un’intenzione, un qualcosa di cui ci sarebbe disperato bisogno, ma che, ancora, non può che prospettarsi nel futuro di questo Paese. Sempre che, ci sia permesso, questo nostro Paese, possa avere un futuro nel quale il messaggio gobettiano trovi almeno un suo tentativo di applicazione. Non sembra, tuttavia, che le vicende vadano in tale direzione. Ciò non deve significare rassegnazione; caso mai, amara consapevolezza del fatto che ancora ci sono dei “disperati lucidi”, in qualche modo simili a quelli che richiama presentando le sue pagine sul Risorgimento. Altro che attualità di Gobetti. L’Italia ha, oramai, conquistato e superato l’approdo del populismo e tende verso una vera e propria “democrazia personale” ma, come ammoniva Gobetti, “le democrazie moderne non ammettono accentramenti e abusi di potere.” un modello che, per metastasi culturale, finisce, ahimè, per influenzare, in forme e modi assai diversificati, anche tanti ambiti della “politica democratica”, quella che si colloca, almeno formalmente, all’opposizione rispetto al fattore grande del degrado civile in cui si è caduti e dell’impudicizia morale che ha generato un’attrazione verso la corruzione delle coscienze. Questo altro non è se non la forma attuale di quel seme fascista che si racchiude nel profondo, più profondo, del molliccio di un Paese ad alta vocazione invertebrata; per dirla con Gobetti: “la misura dell’impotenza del popolo a crearsi il suo Stato.
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Non crediamo che si possa parlare di Gobetti e delle sue idee, soprattutto se non vogliamo abbandonare il filo della sua “attualità” prescindendo dall’Italia di oggi e dalla sua crisi; un termine, vediamo bene, che va riportato, se lo vogliamo applicare al caso nazionale, non tanto per significare una situazione di difficoltà e di complessità, quanto al suo significato etimologico; vale a dire, percogliere e spiegare un passaggio, una trasformazione, un cambiamento profondo. E’ in questo
canone di lettura storico-politica, infatti, che va rapportato il codice cultural-politico gobettiano.
La crisi italiana, così evidente e in progressivo acceleramento, dopo lo sfaldamento della cosiddetta “prima repubblica” - e non si tratta certo di assolvere i casi di malversazione del patrimonio pubblico che sono stati la causa palmare del suo decesso - è una vera e propria crisi della democrazia; non solo come sistema politico, ma quale “luogo” morale e sociale, di dignità e rispetto civile. Per Gobetti, “il regime democratico è fatto di esperienza, di abitudine, di limitazione
quotidiana dei poteri attraverso l’esercizio di tutte le critiche; in regime democratico il pensare ha la stessa dignità del fare; si demolisce, mentre si costruisce o si ricostruisce”.
L’anima della democrazia italiana sta nella Costituzione del ’48 quella che, una volta tanto va detto senza retorica, è effettivamente nata dalla Resistenza, dalla Guerra di Liberazione nazionale, dall’antifascismo, non solo quale opposizione al fascismo e quindi in un’accezione meramente negativa, bensì in senso positivo, quale dato storico motivante in termini politici valoriali la nostra democrazia. Annacquatosi il senso storico – politico dell’antifascismo, è andata pure in crisi la democrazia essendosi in qualche modo smarrite le radici stesse della Repubblica. Vale a dir dell’unica vera istituzionale forma di relazione con la “modernità” che l’Italia abbia realizzato. La Costituzione rappresenta la grande cornice di questo passaggio; per questo non si deve essere considerati dei conservatori se osserviamo che essa è, come avviene peraltro in tutte le democrazie del mondo, un qualcosa di molto delicato da maneggiare con grande cura e rispetto. Non come si è fatto da noi considerando che la crisi della politica fosse dovuta ad una Costituzione inadeguata, mettendoci le mani senza coscienza politica responsabile e nemmeno sapienza giuridica. Oltretutto, va detto a onore della nostra Carta, che questa non è mai stata di impedimento alla crescita civile e
sociale del nostro Paese; anzi, lo ha sempre accompagnato e legittimato con la forza dei suoi principi e dei suoi valori pur sapendo che in ogni sistema democratico, gli obiettivi della politica sono assegnati, appunto, alla lotta politica, ai grandi scontri sociali; ossia a quella dinamica che ha
uno specifico morale nel quale la gente, organizzata nelle istituzioni della democrazia politica – partiti o sindacati che siano, oppure tramite i nuovi movimenti che sorgono per crisi o fertilità della democrazia medesima e che non vanno esorcizzati se si pongono dentro la legittimità liberale della
Costituzione – si confronta e si combatte sul piano delle idee senza delegittimazioni reciproche, ma fondamento della democrazia repubblicana.
Piero Gobetti, da liberale, torna spesso sul problema della lotta politica; intesa non solo come la fisiologia della democrazia, ma quale fattore dinamico che dà senso alla democrazia medesima. È, infatti, attraverso la lotta politica che il dato etico diviene moralità concreta e nella dialettica costante, perpetua, fondante della vita collettiva si realizza una dinamica di concretizzazione storica che intreccia indissolubilmente, attraverso i fili lunghi della morale la libertà e la democrazia. Quest’ultima, quale forma politica della libertà è, quindi, destinata a evolversi secondo gli sviluppi di autonomismo libertaristico che si realizzano; lo Stato, alla fine è il punto di sintesi, sempre transitorio e mai definitivo, di tutto un complesso processo storico cui tutti sono chiamati a fare la propria parte: i singoli, la classe dirigente che si esprime legittimata a tale ruolo, le forze sociali, ivari momenti organizzati.
Nel processo politico morale e libertà sono le due facce di una medesima medaglia e la politica, conformata dalla fisiologia della dinamica dovuta alla lotta e alla legittimità degli interessi in campo; così si determinano i “mandati politici” che rappresentano l’identificazione della gente, singola, associata o classe che la si voglia intendere, conferiti alle classi dirigenti sulla base diposizioni politiche imprescindibili da una solida base morale e implicanti un’idea compiuta del
Paese. Questa è una delle filiere centrali del gobettismo; quella che, ci sembra di poter dire, connota quella sua sovente richiamata “attualità” che l’Italia, fatte salve alcune minoranze, ha sempre rifiutato e tenuto ai margini. Qui forse, anche se a mò d’inciso, si pone un’altra rilevante questione riguardante Gobetti. L’Italia della prima metà del Novecento registra grandi personalità, al contempo politiche e culturali. È scontato citare i nomi di Gaetano Salvemini, Benedetto Croce, Antonio Gramsci, Luigi Einaudi,Carlo Rosselli – ma per Rosselli il ragionamento richiederebbe una ulteriore specificità di analisi – Piero Calamandrei e, naturalmente, l’elenco è, e dovrebbe essere, ben più lungo. Ora, se ripercorriamo le polemiche che via via si accendono, da una parte o da un’altra, la figura e le idee di Piero Gobetti sono quelle che hanno determinato un maggiore e malintenzionato accanimento. Accanto a Gobetti, naturalmente, troviamo il Partito d’Azione, gli azionisti, l’azionismo come cultura sopravvissuta alle vicende del Partito che, come sappiamo, ebbe vita tanto breve quanto gloriosa; Gobetti e l’azionismo spesso criticati da sedicenti liberali che riempiono le pagine dei giornali senza sapere di cosa trattano. Il diritto di critica, infatti, non implica quello all’ignoranza; Gobetti e gli azionisti visti come archetipi di una Italia irrealistica, utopistica, pericolosa se si realizzasse perché Gobetti non è un vero liberale e gli azionisti perché fecero la Resistenza coi comunisti rimanendone per sempre succubi.
Marx ci perdonerà se diciamo che non esiste solo la “miseria della filosofia”, ma anche quella dell’intelligenza poiché nessuno obbliga a concordare con Gobetti o con gli azionisti, ma il killeraggio intellettuale e culturale appartiene alla categoria cui si inseriscono tutte le altre forme di killeraggio. La questione vera di fondo è che la polemica, che periodicamente si riaccende con grande violenza verso Gobetti e l’azionismo, è che si ritiene antitaliano pensare che il nostro Paese
possa vivere secondo virtù civili; in altri termini che possa cambiare rispetto a ossificate strutturalità storiche, liberarsi di poteri consolidati e oppressivi, che tradizionali funzioni possano essere appannaggio a nuovi ceti rispetto a quelli che l’hanno sempre esercitate; che lo Stato, in altri termini, non sia altro rispetto ai cittadini. Vedono come pericolosissima per quanto sottende l’impalcatura culturale, sociale ed economica tradizionale ogni possibilità che dia spazio non solo
ad una “rivoluzione democratica”, ma anche solo a un qualcosa che la possa far intendere possibile.
La storia, in tal senso, ha già dato la sua replica tanti anni fa, nella stagione delle speranze vive quando si complottò per far cadere il governo di Ferruccio Parri, uno degli italiani che, al di fuori di ogni classificazione ideologico-partitica, rappresenta al livello più alto quell’Italia virtuosa che avrebbe dovuto divenire l’Italia rivoluzionata democraticamente. La caduta di Parri, anzi la figura stessa di Parri e la sua storia, stanno a dimostrare che, ma lo sappiamo bene, un’altra Italia è
possibile e migliore e, non a caso, anche il dileggio continuato contro Parri può essere addotto, oltre a ben altro s’intende, al fatto che è difficile rendere in Italia attuale Gobetti e il gobettismo. Pur tuttavia la storia d’Italia ha dato ragione a Gobetti. La replica della realtà ha dimostrato la fondatezza delle sue ragioni, della sua critica al Risorgimento, e va sottolineata sua, al suo modo di concepire il liberalismo non come un’ideologia pragmatica di governo, bensì della libertà che si fa nel farsi volontaristico della storia, in quanto abbia pesato, non tanto sul piano religioso, ma civile la mancanza di uno spirito protestante, di come le classi dirigenti nascono dal basso e si affermano legittimandosi nella lotta politica democratica, di come lo schema della rivoluzione liberale, ossia lo schema della libertà storica, non implica né pregiudizi né chiusure aprioristiche contemplando legittimità di appartenenza a quanto fa della politica un fattore della consapevolezza morale fino all’intreccio ineludibile di moralità che deve esistere tra il singolo e la storia che gli è data vivere.
Piero Gobetti partì dalla rilettura del Risorgimento, convinto che il Paese avesse bisogno di un forte rinnovamento morale e intellettuale; che lo scontro sociale apertosi dopo il conflitto vittorioso richiedesse una palingenesi politica e non o il ritorno al passato o l’imporsi di un cambiamento nel senso nazionalistico denunciando che, un Paese in scarto di liberalismo e di pratica democratica, alieno dal senso della modernità, mancante di una diffusa coscienza civile, abituato al trasformismo e alla composizione piuttosto che alla lotta, sarebbe scivolato in un’involuzione autoritaria. Così fu e il fascismo, prima che essere un fattore della politica, era l’epifenomeno di un vuoto storico, l’affermarsi di un’immaturità morale; era, appunto, “l’autobiografia della nazione”. “Il fascismo – scrive – in Italia è una catastrofe, è un’indicazione di infamia decisiva, perché segna il trionfo della faciloneria, della fiducia, dell’ottimismo, dell’entusiasmo”.
Era l’epilogo di una narrazione escludente quel valore fondante della libertà che Cattaneo –“esempio di un pensiero che si identificava tutto con la libertà e l’autonomia”, il suo amato Cattaneo, aveva richiamato, voce isolata nel Risorgimento; che egli aveva urlato con quanto gli era disponibile e nulla risparmiando a cominciare da se stesso; nel cui nome Carlo Rosselli aveva criticato il socialismo italiano di cui non aveva negato i meriti, ma l’impianto ideologico
deterministico; che, insomma, il problema italiano era una questione di libertà e i fatti hanno dimostrato nel passato e lo dimostrano oggi che il problema italiano continua a essere un problema di libertà. Se c’è un’attualità di Gobetti essenzialmente risiede in ciò. Per Gobetti, storico del presente e critico della politica, la relazione tra politica, libertà e questione nazionale sono strettamente correlate. Il fascismo gliene dava ragione, ma prima del fascismo ritrovava la questione negli eretici del Risorgimento come pure nei fattori positivi che emergevano in quegli anni tumultuosi: l’esperienza della classe operaia torinese, il significato “rivoluzionario” delle amministrazioni socialiste, l’affacciarsi sulla scena politica dei cattolici che si liberavano del “non expedit”, l’autonomismo del sardismo lussiano, l’emergere di una nuova coscienza del problema meridionale come pure del neoprotestantesimo gangaliano.
La questione era di ricomporre culturalmente l’ambito della libertà come diffuso agente della politica italiana; il fascismo si affermò e la lotta, la lunga lotta che comportò la sconfitta, dette all’Italia un senso diffuso del valore della libertà; la nascita della Repubblica e la Costituzione hanno sancito un nuovo patto che configura, proprio nei principi costituzionali, quei fattori di “nazionalità” rimasti estranei al Risorgimento nazionale che è, e rimane, un grande evento italiano e europeo, ma sul quale pesò la preponderanza del fattore dell’indipendenza e la chiusura savoiarda. Pur tuttavia la Repubblica passò ben presto dalla fase resistenziale e quella desistenziale; il quadro internazionale congelò in uno schema rigido la politica nazionale; i movimenti per la conquista dei
diritti, delle salvaguardie, il rinnovamento e la laicità comportarono lotte e scontri; ci furono annibui in cui lo Stato autoritativo rispondeva talora con il fuoco e l’insuccesso di una indispensabileepurazione germinò antidemocrazia con le conseguenze che tutti sappiamo e gli “omissis” che ne sono scandalosamente seguiti.
L’Italia, che tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta, registra uno sviluppo economico e un allargamento della ricchezza senza precedenti pensò di aver fatto il salto verso un futuro senza inciampi; ma rimanendo irrisolti i problemi storici annidati nella pancia del Paese a ogni passaggio di fase riemergevano tematiche sulle caratteristiche di questo Paese bisognoso di una “rivoluzione liberale” che non c’era mai stata. Fino a che lo schema fondante della Repubblica
ha retto e i partiti politici, veri fondamenti del nostro sistema democratico, gli unici soggetti titolari del “mandato politico”, non sono stati travolti, il senso dell’Italia democratica, delle sue radici, dei suoi valori, quello della Costituzione, hanno permesso al Paese di reggere, superare crisi durissime; quando i partiti hanno smarrito il senso stesso del loro essere, tanto che si è pensato di poter avereuna democrazia che ne potesse fare addirittura a meno, se non formalmente, ciò ha significato che essi avevano smarrito quel “mandato politico” conquistato durante la lotta antifascista. Il sistema, alla fine, è saltato, altre forze si sono impropriamente appropriate di quel “mandato”, la politica – se così si può chiamare – ha cominciato ad espellere la gente da se stessa – infliggendo una ferita gravissima alla democrazia italiana poiché era tramite i partiti e non i talk show che la gente partecipava della vita democratica; la politica si è personalizzata e la passione italica per i domatori di circo è esplosa con le conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti. In chiusura del saggio del 1924 Gobetti osserva che il mussolinismo è “un risultato assai più grave del fascismo stesso perché ha confermato nel popolo l’abito cortigiano, lo scarso senso della propria
responsabilità, il vezzo di attendere dal duce, dal domatore, dal deus ex machina la propria salvezza”.
A poco a poco, si è messo, prima, sotto processo l’antifascismo, poi la Costituzione, il senso della legge e della giurisdizione, il Parlamento e si è riportato lo Stato, tra le altre cose, sotto la tutela morale della Chiesa come ci dimostra che, per la prima volta, recentemente, la presa di Porta Pia è
stata celebrata anche dal cardinale segretario di Stato vaticano. Se capovolgiamo tutto ciò e ne traiamo ragionate considerazioni storico-politiche ecco che l’attualità di Gobetti non è un’espressione retorica perché la storia rimette, ancora una volta, il conto della libertà.
La lezione di Gobetti si proietta, così, con senso vivo fino all’Italia di oggi; una lezione di cui il Paese ha bisogno più che mai prima che il tempo passato inutilmente nella drammaticità di una situazione tragica e straziante apra una deriva dalla quale sia difficile tornare indietro.
La rivoluzione liberale, la riacquisizione del significato libertaristico della libertà, sembra suonare ancora come una parola d’ordine e un imperativo categorico per quel futuro migliore, per quell’Italia più giusta, più civile e più moderna per cui, prima di noi, in tanti hanno lottato tutto gettando nella lotta fino al sacrificio della vita talora; per questo Gobetti parla ancora all’Italia di oggi come parlerà a quella di domani.