La città del futuro è testa e popolo

di Salvatore Settis

img186

Nessun essere umano è un’isola. Anzi, non esistono isole, ci sono solo arcipelaghi o continenti. E quando un’isola è davvero lontana da tutto, può anche crescervi una grande civiltà, ma condannata a crollare su se stessa: fu questo il destino dell’Isola di Pasqua.

Anche fra le comunità umane, quel che ne fa la tessitura e ne assicura il futuro non è una chiusa e cieca identità fondata sull’esclusione, ma piuttosto l’interscambio con altre culture, con altre comunità. Un’idea inclusiva di cultura, in cui il dare e l’avere si incrociano secondo equilibri sempre mutevoli, ma nei quali non c’è mai un polo attivo che ne ingoia uno passivo, ma una continua osmosi di temi, pensieri, esperimenti, progetti sul futuro. E il luogo massimo di ogni interazione culturale è la città, suprema invenzione degli umani: un luogo dove gli scambi di esperienze e di progetti avvengono per forza di natura, grazie all’accoglienza e alla fecondità sociale dei luoghi e non solo all’i mmediata convenienza (economica o politica) di chi prende la parola.

Non stiamo gettando sul tappeto principi astratti, ma il seme fecondo di un futuro possibile. Con esso è in piena sintonia l’inedita convergenza fra scienze umane e scienze naturali che va delineandosi in questi anni. Antropologi e biologi, genetisti e filosofi riconoscono nel disegno della natura e in quello della storia una potente tendenza all’inter - connessione (interconnetedness è la parola-chiave, che –è vero –è diventata di moda, ma con ottime ragioni dato quel che esprime). Tutti gli organismi viventi (le piante e gli animali, inclusi gli umani) interagiscono di continuo, sono complementari secondo catene di relazione ma anche di causa-effetto. Formano un unico gigantesco ecosistema che abbraccia anche quel che pensiamo come ‘inanimato’ ma non lo è : aria, acqua, terra. Chi ne considera solo un aspetto isolandolo dall’insieme dovrà arrendersi all’e videnza di una strettissima interconnessione che è indispensabile a spiegare, in termini scientifici o filosofici, quel che avviene intorno a noi. E c’è appena bisogno di ricordarlo in un tempo come il nostro, dove la veloce diffusione di pandemie ha origine nel mondo animale, è favorita e accelerata dagli allevamenti intensivi voluti dagli uomini, e colpisce le popolazioni in tutto il mondo. E non può esserci una vera ‘soluzione del problema’ che tenga in conto solo gli aspetti economici (la riduzione della produzione, la difficoltà di ripensare gli allevamenti intensivi, la disoccupazione) o solo  l'affannosa ricerca di terapie, senza analizzare le cause prime di questo fenomeno che è destinato a crescere nel tempo.

Nella città, o nel rapporto fra le città in quelle più vaste comunità che sono gli Stati o gli organismi interstatali, questa stretta interconnessione avviene mediante la cultura, ed è qui che la Carta di Roma 2020, lanciata prima della pandemia, rivela la propria attualità e la propria urgenza. Le parole con cui comincia (“Noi, il popolo, siamo la città”) colgono da subito un punto essenziale: prima che strade e piazze, cattedrali e palazzi, istituzioni e industrie, le città sono folle di donne e uomini con la loro esperienza, con le loro gioie e dolori, aspirazioni e fallimenti. Parlare di ‘rigenerazione urbana’ nel senso di recupero o gentrification dei quartieri storici ha poco senso: non si dà rigenerazione urbana senza rigenerazione umana. Ed è per questo che (lo ha detto Luca Bergamo nel suo discorso introduttivo) la cultura non dev’essere confinata a una dimensione privata, ma comporta necessariamente l’impegno e l’investimento delle istituzioni pubbliche.

I principi della Carta di Roma 2020, che si può leggere online (https://www.2020romecharter.org) , saranno sottoposti, è da sperare, a verifica e miglioramento mediante progetti concreti: e il ventaglio dei partecipanti virtuali all’incontro di Roma (dalla Cina all ’Africa, dalle Americhe all’Europa) è in questo senso molto promettente. Ma è in ogni caso importante che un appello come questo sia partito dall’Italia, il Paese dove la Costituzione ha la più esplicita e netta formulazione della funzione della cultura come ingrediente essenziale di una società che aspiri all’eguaglianza. Questo dice infatti l’art. 9 della nostra Costituzione, quando stabilisce fra i principi fondamentali dello Stato la triangolazione fra cultura, ricerca scientifica e tecnica e tutela dei paesaggi e dei beni culturali. Letto nella tessitura della Carta, questo principio appare mirato alla riduzione delle disuguaglianze e alla crescita della giustizia sociale. In una parola, a quella “pari dignità sociale” proclamata dall’art. 3 della nostra Costituzione molto prima della dichiarazione Onu sui diritti umani.

La cultura, lo dice già la Costituzione, se rettamente intesa è strumento di eguaglianza, motore di democrazia, spinta all’inclusione. Se davvero principi come questi verranno adottati da reti e associazioni di amministrazioni municipali, quella straordinaria formazione storica che si chiama città potrà essere non solo il luogo privilegiato di diffusione delle pandemie, ma anche l’incubatore di un nuovo pensiero positivo che faccia leva sull’analisi dei meccanismi di interconnessione nella natura e nella cultura per generare un nuovo pensiero creativo. Da esso dovrà venire la forza di affrontare la crisi che viviamo non come il rassegnato ritorno a un passato immutabile, ma come la progettazione di un miglior futuro. 

  • DAL 1° AL 3 ottobre si è svolto al MACRO di Roma un convegno internazionale sulla Carta di Roma 2020, un manifesto sulla centralità     della cultura nelle città del futuro, lanciato dal vicesindaco di Roma Luca Bergamo e raccolto da numerose città in tutto il mondo.     Questa è la sintesi dell’intervento tenuto in quella occasione da Salvatore Settis.

Il Fatto Quotidiano, 6 ottobre 2020