Ottant'anni fa i sette partigiani vennero rinchiusi nel carcere di Reggio Emilia e fucilati, Calvino omaggiò l'eccezionalità del loro sacrificio, simbolo di fratellanza universale

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«Tutto quello che il popolo italiano espresse di meglio nella Resistenza, lotta contro la guerra, patriottisno, fratellanza internazionale, coraggio, amore della famiglia, e della Terra, tutto questo fu nel Cervi». Italo Calvino, nel novembre 1948, sulle pagine di Rinascita. E' la prima consacrazione del "mito" dei sette fratelli Cervi e del padre Alcide. La storia è nota. I Cervi sono una famiglia contadina emiliana, prima mezzadri, poi affittuari del podere dei Campi Rossi di Gattatico, tra Parma e Reggio Emilia: sette fratelli, due sorelle, i più grandi già sposati con prole, tutti insieme a condividere la grande cascina e la conduzione del campi; a guidarti il padre Alcide, che ha insegnato loro il coraggio, e la madre Genoeffa, che ha trasmesso l'intelligenza curiosa. I Cervi sono figli della terra, ma col gusto dello studio: leggono i romanzi di Tolstoj e di Hugo, si abbonano a riviste di agricoltura, nel 1939 acquistano un trattore Balilla e vi fissano sopra un mappamondo, per sottolineare la correlazione tra progresso e umanità.

Nel Ventennio vivono con insofferenza prepolitica la cultura del regime, senza tuttavia impegnarsi nella militanza antifascista clandestina (solo Aldo, il quartogenito. si avvicina all'organizzazione del Partito comunista). Dopo aver accolto con entusiasmo liberatorio la caduta di Mussolini, di fronte alla successiva deriva dell'8 settembre, i Cervi non esitano a schierarsi dalla parte giusta della storia: aprono la loro cascina a quanti cercano di evitare la cattura (soldati sbandati, ex prigionieri sovietici e britannici, fuorusciti), raccolgono armi, danno vita alle prime azioni partigiane nell'Appennino reggiano. A metà novembre, scontando le difficoltà di collegamento di un ribellismo ancora iniziale, i fratelli ritomano ai Campi Rossi, e lì vanno incontro al loro destino: il 25 novembre 1943 una squadra di fascisti attacca in forze l'abitazione, la incendia, cattura il padre Alcide e tutti i figli. Rinchiusi nel carcere di Reggio Emilia, i sette fratelli vengono fucilati il 28 dicembre come rappresaglia per l'uccisione da parte dei partigiani di un colonnello della Milizia e di un funzionario repubblicano. Il padre Alcide, risparmiato dall'eccidio, riesce invece ad evadere dal carcere nel gennaio successivo, approfittando della confusione creata da un bombardamento alleato.

Fin qui la storia, con i dubbi legati ad una ricostruzione difficile: nel tempo non sono mancate illazioni sulle imprudenze commesse dai fratelli, sulla responsabilità di delatori del luogo, sull'intreccio di avversioni politiche e inimicizie private. Non è questa la sede per approfondire: ciò che interessa, 80 anni dopo, è la fondazione e lo svilupparsi del mito. Pressoché ignorata durante la Resistenza, la vicenda entra nella memoria locale il 25 ottobre 1945, quando le salme dei fratelli vengono traslate nel cimitero di Campegine davanti ad una folla inattesa, richiamata dal possaparola: una partecipazione spontanea, senza richiamo di annunci o manifesti, perché la memoria popolare attraversa percorsi imperscrutabili e talvolta riemerge improvvisa.

Dopo che nel 1947 Enrico De Nicola, capo provvisorio dello Stato, consegna a papà Cervi le sette medaglie d'argento al valore militare conferite ai figli, il primo a dare risonanza alla vicenda al di fuori del Reggiano è, come detto, Calvino, che ne fissa gli elementi costitutivi: l'eccezionalità del sacrificio dei Cervi, il loro amore per il progresso e la fratellanza universale; la figura carismatica del vecchio Alcide, simbolo di forza e concretezza contadina. Lo stretto legame tra la tradizione della "famiglia", l'impegno nel lavoro dei campi e la scelta antifascista legittima la Resistenza come fenomeno popolare, in cui può identificarsi un'Italia per tanta parte ancora rurale.

Negli anni successivi la cascina dei Campi Rossi, dove il vecchio Alcide ha deciso di rimanere riprendendo in mano le redini della famiglia distrutta e ricominciando il lavoro con i nipoti, diventa meta di pelegrinaggi sempre più frequenti: come ha scritto lo storico Luciano Casali, è papà Cervi il vero mito aggregante, perchè nell'immaginario collettivo rappresenta «la volontà degli italiani di riprendersi dopo la catastrofe con uno sforzo comune».

La consacrazione avviene nel 1955 con una scelta "programmata" del Partito comumista, voluta dallo stesso Togliatti e portata avanti con determinazione da Sandro Curzi. Il giomalista Renato Nicolai scrive il libro di memorie di Alcide Cervi, I miei sette figli e la commissione stampa e propaganda del partito lo promuove in tutti Italia. Il volume, che si rivela un grande successo editoriale, riprende l'impostazione di Calvino affidandola alla voce narrante dello stesso padre Cervi. Le forzature poltiche sottolineano esemplarità di un percorso che è funzionale all'autorappresentazione del Pci togliattiano: una famiglia che offre il prioprio sacrificio alla patria, che ha avuto una forte esperienza religiosa e che ha scoperto la nuova verità del socialismo.  Ma la fortuna del libro è dovuta ad altro. A fronte di una memoria resistenziale legata alla sacralizzazione del martirio (Fosse Ardeatine, Marzabotto, Sant'Anna di Stazzema), Alcide Cervi propone un'ottica diversa, raccontando ciò che c'è'stato "prima" dell'eccidio e ciò che continua ad esserci "dopo", Il sacrificio diventa il prezzo pagato ad un percorso di crescita collettiva che la violenza fascista non è riuscita ad interrompere. E' il messaggio di speranza che l'Italia della ricostruzione vuole ascoltare.

La Stampa, 27 dicembre 2023