La classe politica oggi al governo non riconoscerà il contributo italiano e fascista allo sterminio degli ebrei. Meglio quindi che il ricordo dell'Olocausto sia lasciato a chi ha lutti da elaborare e morti da piangere

di Giovanni De Luna

16 ottobre 1943 roma rastrellamento ebrei

Roma 16 ottobre 1943: il rastrellamento del ghetto ebraico

Il fatto che "il giorno della memoria” veda Giorgia Meloni rivestire la carica di Presidente del consiglio e Ignazio La Russa quella di presidente del Senato suscita qualche rimpianto e ripropone molti interrogativi. Il rimpianto è legato essenzialmente a quando, il 20 luglio del 2000, il nostro Parlamento votò la legge con la scelta del 27 gennao, data in cui le truppe sovietiche liberarono i deportati rinchiusi nel lager di Auschwitz. Nella discussione in aula fu avanzata una proposta alternativa, quella di privilegiare il 16 ottobre 1943, il giorno in cui furono razziati dalle SS gli ebrei che abitavano il ghetto di Roma: verso i campi di sterminio partì allora un triste convoglio di 1023 rastrellati. Soltanto 16 di loro sopravvissero. Qualcosa di analogo si era tentato anche in Francia, con la proposta di istituire come data della "giornata della memoria” quella del 16 luglio, per ricordare il grande rastrellamento in cui, nel 1942, la polizia francese arrestò 13.152 persone, in maggioranza ebrei, prima imprigionate nel Vélodrome d'Hiver e nel campo di internamento di Drancy, e successivamente trasportate con il treno ad auschwitz per essere sterminati.

Scegliere il 16 ottobre (o il 16 luglio) voleva dire mettere l'accento sulle responsabilità dei fascisti italiani (e dei francesi della Repubblica di Vichy) nell'organizzazione, nella gestione logistica, nell'esecuzione dei nefandi ordini che portarono al "male assoluto”, di cui ha parlato La Russa nella sua visita, insieme a Liiana Segre, al binario 21, quello del Memoriale della Shoah di Milano. Voleva dire confrontarsi senza giri di parole con Mussolini (La Russa si è vantato di custodirne il busto in casa sua) e Pétain, parlare finalmente della Shoah indicando i mandanti e gli esecutori di quel crimine orrendo, incrementare i percorsi di una conoscenza né superficiale, né rituale.

Si preferì allora la data del 27 gennaio; più ecumenica ed asettica, meno legata alle nostre vergogne nazionali, e pazienza se erano stati i soldati "comunisti” con la stella rossa sull'uniforme a liberare Auschwitz. La vita era comunque bella e nella fiction cinematografica si pote- va benissimo inventare un carro armato americano per la commovente scena del lieto fine della fiaba del piccolo Giosuè, ideata e magnifica- mente interpretata da Roberto Benigni.

Peccato. Sarebbe stato interessante vedere le reazioni degli esponenti di Fratelli d'Italia che oggi ci governano nei confronti delle imprese della Repubblica Sociale che tanta parte occupa nel pantheon della loro religione civile e chiedere a La Russa se la definizione di "male assoluto” comprende anche i comportamenti dei "ragazzi che andarono a Salò”.

Gli interrogativi scaturiscono proprio da questo ragionamento. È possibile conciliare il male assoluto con lo slogan "onore e fedeltà al camerata tedesco "che per migliaia di ebrei significò una morte orribile? È possibile continuare a nascondersi dietro l'innocenza delle vittime per dimenticare le colpe dei carnefici? Il paradigma vittimario che imperversa nella nostra memoria pubblica consente questa e altre acrobazie e spesso riesce a farsi beffe della storia. Ma oggi il cordoglio per le vittime non basta più. Sono stati gli stessi ebrei a rifiutare quell'approccio, scegliendo di definire lo sterminio del loro popolo ad opera dei nazisti Shoah e non Olocausto, un termine giudicato inadeguato proprio perché mette in primo piano le vittime, quasi che la loro morte richiami l'intervento del divino e del sacro. "Shoah” inchioda invece i colpevoli alla loro responsabilità ed esalta nelle vittime non la rassegnazione al sacrificio ma la capacità di battersi contro lo sterminio, come fecero gli insorti del ghetto di Varsavia che, dal 19 aprile al 16 maggio 1943, affrontarono a viso aperto i loro aguzzini o, ancora, come fecero gli stessi componenti dei Sonderkommando che, nonostante l'orrore del loro lavoro (erano gli addetti all'assassinio dei propri correligionari) e la loro morte certa (proprio a causa delle mansioni che erano chiamati a svolgere), si adoperarono fino all'ultimo perché le tracce dell'abominio non fossero cancellate e ne fosse perpetuato il ricordo.

Francamente non credo che ci si possa ancora nascondere dietro le vittime e con altrettanta franchezza penso che da parte di questa classe politica oggi al governo il riconoscimento del contributo italiano e fascista allo sterminio degli ebrei e del nodo inestricabile che legava il fascismo di Mussolini e il razzismo non verrà mai. C'è quindi da augurarsi che, fuori da ogni ipocrisia, si lasci la giornata della memoria a chi ha veramente dei lutti da elaborare, dei morti da piangere, dei colpevoli di quelle morti contro cui imprecare. 

La Stampa, 23 gennaio 2024