Figli del ’68 nascono, crescono, muoiono.

La rivoluzione ai tempi di internet

di Vito Loiudice

Ogni giorno si ascoltano storie di giovani trentenni che vivono ancora con i genitori.Storie di giovani trentenni che pensano che forse non riusciranno mai a scrollarsi di dosso l’etichetta di bamboccione e che infine si tolgono la vita.

Una generazione di ragazzi allo sbando che si chiedono perché non riescano a meritare una vita più dignitosa e indipendente, proprio come quella dei genitori con cui vivono.

Il problema allora è nell’approccio alla vita? Negli sbagli, consapevoli o inconsapevoli? Nella pigrizia?

Dove e se ha sbagliato la generazione dei giovani trentenni?

La nostra è un epoca talmente ricca di opportunità e di stimoli da non permettere – paradossalmente – agli attori che ne fanno parte di beneficiarne.

Viviamo infatti di iperstimolazioni sensoriali, di apparente ipertrofia nella socializzazione, ormai quasi completamente affidata al virtuale, di esasperazione del relativismo e dell’individualismo quotidianamente proposti come metro delle proprie capacità dai mass media, di annichilimento della coscienza critica camuffato da sviluppo della creatività, di aberrazione dei percorsi di crescita personale e culturale in assenza di veri modelli positivi e propositivi.

Questi, a parere di chi scrive, sono solo alcuni dei mali che affliggono la generazione dei giovani trentenni di oggi. E non sono considerazioni così pessimistiche se si pensa al ritmo e alla velocità con cui si evolvono le dinamiche sociali nell’era della comunicazione globale. Quali sono le cause?

Ogni giovane trentenne di oggi ha genitori che molto probabilmente hanno vissuto il ’68 in prima persona; questo è un dato di fatto.

Certamente ai fini del nostro discorso non è inappropriato parafrasare l’adagio popolare che vuole il “frutto cadere mai lontano dall’albero che lo ha generato”, pertanto possiamo affermare che le radici di questi mali affondano nel passato, trovando legami stretti con la generazione precedente.

I trentenni di oggi possono dirsi figli del ’68: c’è infatti un trait d’union che lega intimamente sogni e delusioni di chi ha vissuto gli anni della contestazione ai sogni e (più numerose) delusioni di chi vive il presente nell’angoscia di una precarietà non solo lavorativa, ma civile e più in generale umana.

Perché un giovane operaio trentenne, sposato e con prole, decide di togliersi la vita alla notizia della messa in cassa integrazione e del prossimo fallimento della ditta per cui lavora?

Perché da una decina d’anni si parla di “fuga di cervelli” ma ancora non si scioglie il nodo di come agevolarne il rientro?

Evidentemente perché c’è un vuoto nella vita dei giovani d’oggi, un vuoto valoriale che toglie terreno perfino alla speranza, ai desideri, al vivere quotidiano e lascia campo aperto a chi manovra le leve nelle sale di regia del nostro Paese.

Eppure viviamo in un mondo che ha fatto delle opportunità obiettivi da raggiungere a tutti i costi pur di garantire una vita meno problematica a tutti.

Allora occorre domandarsi dove e se hanno sbagliato i giovani trentenni, o piuttosto dove e se ha sbagliato chi li ha preceduti?

Le condizioni di partenza, a ben guardare, non sono le medesime per le due generazioni.

L’una viveva in un Paese dalla democrazia giovane, in un contesto socio-economico ricco di opportunità concrete, fatto di percorsi accidentati ma non ancora battuti: non era ancora pensabile una saturazione nelle professioni e nei mestieri, tanto meno era pensabile un ingresso nel nostro paese di braccia straniere a basso costo così massiccio come lo è oggi. Insomma, gli scenari dell’epoca dipingevano quell’Italia come un paese ancora “da farsi”.

L’altra generazione, invece, deve sempre ritagliarsi spazi che altrimenti non le sarebbero concessi, sgomitando in quello che è letteralmente divenuto il “mercato” del lavoro, al di là delle stesse intenzioni del legislatore. Un mercato in cui mano d’opera e competenze si comprano come fossero merci in aste al ribasso, un mercato spesso schiavo di meccanismi avulsi da qualsiasi dimensione etica, orfano di principi prima ancora che di risorse. Questa generazione, insomma, ha trovato un paese che ha smentito consapevolmente la sua stessa prima regola costituzionale.

Con quale indole ci si accinge a guadagnarsi una vita piena e felice oggi? Quali modelli abbiamo da seguire per poter dire che viviamo e non solo sopravviviamo?

Perché ci si accusa di non essere capaci di fare una rivoluzione, la nostra rivoluzione?

Indubbiamente la generazione del ’68 si è rimboccata le maniche: ha stravolto i canoni del vivere quotidiano in settori che mai erano stati toccati prima. In politica, nella cultura, nelle università, nelle piazze, ha scardinato un sistema di valori che confidava molto sul rigore - etico, morale, culturale, professionale – presentandolo come pesante eredità di un’Italia appena ricostruita e mai come possibile trampolino verso la modernità.

Liberi da quel giogo e dal clima di austerità che ne scaturiva, gli attori della contestazione hanno incoscientemente spianato la strada al relativismo e all’individualismo – nuovi culti di un umanesimo rinato nella ricerca di se stessi e nell’ossessiva introspezione – piuttosto che alla solidarietà e alla lungimiranza, dimenticando che dopo ogni rivoluzione c’è sempre una reazione.

Minigonne, lotte di classe, femminismo, aborto, contraccezione, scioperi di massa, realizzazione delle istanze di pubblicità e trasparenza nei meccanismi decisionali, sono state le grandi conquiste nell’epoca della liberazione dalla povertà e del boom economico – troppo presto esauritosi – epoca prodromica ad una pervasiva presenza della politica in ogni aspetto della vita quotidiana.

Quale prezzo avrebbe pagato il ’68 per le sue conquiste? Pare che la risposta sia viva nel presente.

Forse tutti quei traguardi, pur nella loro importanza, contenevano già al loro interno i germi del disfacimento.

Come si è potuto pensare di tollerare gli effetti di uno sregolato laissez-faire su una società come la nostra, dalla coscienza civica ancora acerba, rifiutando di prevederne il naturale collasso a causa dell’assenza di fattori di controllo e regolazione condivisi e consolidati?

Con quale grado di maturità e consapevolezza si è pensato di poter raccogliere i frutti della contestazione senza prevenire i futuri germogli di disincanto e impoverimento che già facevano capolino?

Nulla si è imparato dai tristi eventi verificatisi nei successivi anni di piombo?

Si può imputare un profilo di eccessiva leggerezza nell’analisi e nelle scelte a carico di chi ha vissuto il ’68, leggerezza che si è concretata in un’immatura fiducia nel futuro, senza la dovuta vocazione per quelle misure in grado di cautelare l’avvenire delle generazioni future. E agli attuali trentenni si pongono inquietanti interrogativi.

Quale patto sociale potrà mai stringere una generazione anagraficamente prossima alla pensione, ma la cui prolungata presenza nel mercato del lavoro è l’unico salvagente per le pensioni stesse?

Come può un sessantottino pretendere d’insegnare alle prossime generazioni come ci si merita un posto nella società, se ancora oggi strenuamente difende i frutti del proprio impegno anche a discapito delle seconde?

Come può chiedere un simile sforzo di comprensione alla stessa generazione che inconsapevolmente vede a sé contrapposta in una sorta di guerra tra poveri?

Quale lascito può vantare in nome dell’altruismo e del passaggio di testimone generazionale?

Quale futuro sperano queste persone per i propri figli, se non riescono a condividerne le attese proprio ora che hanno l’età per ambire a conquiste civili, politiche, economiche e sociali proprie?

Vittime di un disagio che per ora non vede soluzioni, noi trentenni siamo inchiodati all’etichetta di bamboccioni.

Al già difficile obiettivo di guadagnarci la nostra fetta di vita, laddove questa vita quasi per intero è già appannaggio di una sola generazione, si aggiunge l’amarezza di essere stati scavalcati addirittura dalle prossime. Siamo improvvisamente diventati invisibile zavorra per le famiglie, beneficiari soltanto di ammortizzatori sociali e a null’altro possiamo ambire se non al ruolo di sfortunati individui senza desiderio di rivalsa. Siamo olocausto al domani: nelle parole tutti ci sono vicini nell’intento di salvarci da un progressismo finora dimostratosi iniquo, ma nei fatti siamo schiacciati tra gli ingranaggi di un mercato neutrale e spietato, costretti ad accettare questa condizione per il bene – forse – di chi verrà dopo di noi.

Obiettivamente chi scrive non abbandona la speranza in un cambiamento che venga da noi stessi, dall’energia della nostra gioventù e dalla presa di coscienza dei nostri predecessori; né ripudia l’idea della conquista dei propri spazi vitali, anche a costo di sacrifici spesso più grandi di quanto si riesca a sopportare, pur di poter vedere realizzati gli scopi che si prefigge come tutti gli altri esseri umani.

Ma la riflessione, alla luce di fenomeni d’impoverimento culturale dell’intero paese o addirittura di suicidio causato dalla perdita di lavoro, è d’obbligo. E alla stessa riflessione invita chi avrà la pazienza di leggere queste poche righe.