Scotellaro, versi della libertà contadina

di Franco Arminio

Leg­gendo i versi di Rocco Sco­tel­laro penso alla mia infan­zia, comin­ciata quando il mondo con­ta­dino stava finendo. Ma forse ho fatto in tempo a sen­tire qual­cosa che si sfor­zava di resi­stere, di non cam­biare. E allora adesso mi viene in mente quel tempo e que­sto, le loro dif­fe­renze. Penso alla vampa del foco­lare, penso alle nevi­cate not­turne, alle mat­tine in cui la neve rim­pic­cio­liva le fine­stre. Il paese di adesso è rag­giunto dalle imma­gini che calano dalle antenne. E nel com­pu­ter vedi quello che puoi vedere ovun­que. La vampa della tua esi­stenza non sem­bra più salire da un luogo ma solo dal tuo corpo.

                 scotellaro


 

Nes­suno pen­sava al paese e meno ancora alla comu­nità. Il pen­siero era per le cose, la stella, il mezzo litro di vino, gli uccelli, il fumo, il cuore delle madri, la pol­vere e la pece, le scarpe, le scope, la sera, il vento e la neve, l’albero e la fon­tana. Il paese non discor­reva di se stesso, l’orizzonte era chiuso. Oggi tutto è aperto, squar­ciato, la forma di ogni cosa è appog­giata su una ragna­tela di parole.

Il luogo dove sto scri­vendo una volta era la stanza della frutta. Andavo a pren­dere le banane o le arance. Adesso è da qual­che anno che non man­gio più arance. Ho paura che mi diano il reflusso e quando mi viene il reflusso è come se mi venisse un infarto.

Ora la frutta non c’è più. Fra qual­che giorno tor­nerò con tutta la mia fami­glia ad abi­tare nella casa in cui sono nato. Per prima cosa abbiamo tra­sfe­rito i com­pu­ter e una pic­cola parte dei libri. Il tempo che passo a spo­stare i libri non è di molto infe­riore rispetto a quello che passo a leggerli.

Oggi ho letto ancora Sco­tel­laro. Ho letto anche una parta dell’indegna recen­sione che gli dedicò l’attuale Pre­si­dente della Repub­blica. In que­sto caso le vicende del corpo sono impor­tanti. Si può pen­sare che il poeta lucano sia morto per­ché den­tro la sua aorta ha pro­vato a far pas­sare tutti gli affanni del suo popolo. Era un affanno che tra­pela anche in que­ste versi: «Non gri­da­temi più dentro,/ non sof­fia­temi in cuore/ i vostri fiati caldi, con­ta­dini». Nel caso di Napo­li­tano mi pare di vedere un’accorta gestione della pro­pria vita, più che della Nazione che pre­siede. Sco­tel­laro e Napo­li­tano erano quasi coe­ta­nei, due modi diversi di vivere la grande avven­tura della sini­stra nove­cen­te­sca. Il poeta di Tri­ca­rico è più cru­ciale di Napo­li­tano, non solo per­ché è un poeta, ma per­ché la mente con­ta­dina è molto più vicina a certe moda­lità di fun­zio­na­mento della rete rispetto alla men­ta­lità dia­let­tica e sto­ri­ci­sta su cui si è for­mato Napolitano.

La con­trap­po­si­zione non è tra poli­tica e poe­sia, visto che Sco­tel­laro è stato sin­daco e poeta. La con­trap­po­si­zione è tra la mente, tutta inca­na­lata nella logica causa-effetto, e il cuore, incar­di­nato sulla com­pre­senza, sulla coe­si­stenza (la poe­sia non è altro che la coe­si­stenza di sogno e ragione). A me appare evi­dente che la logica della rete è più vicina al pen­siero arcaico che Napo­li­tano rim­pro­ve­rava a Sco­tel­laro a pro­po­sito dei suoi Con­ta­dini del Sud. In fondo ognuno ha con­ti­nuato per la sua strada. Il poli­tico miglio­ri­sta ha rag­giunto la migliore delle cari­che pos­si­bili per un poli­tico. Il gio­vane poeta ha rag­giunto pre­co­ce­mente la morte, forse la migliore delle posi­zioni pos­si­bili per apprez­zare il lavoro di un poeta.

«Il ser­pente nero, steso sul muro, era mio padre che mi sbar­rava il passo. Tutte que­ste malat­tie di oggi sono per­ché hanno spo­gliato i boschi per­ché prima rima­ne­vano sof­fo­cate nelle chiome degli alberi». Leg­gendo que­sto fram­mento di Sco­tel­laro mi è venuto in mente Kafka. Un acco­sta­mento che mi pare di non aver mai letto negli scritti sul poeta lucano. Troppo facile ed evi­dente la via del «poeta della libertà con­ta­dina». A me pare ci sia altret­tanto evi­dente un poeta scuro, ingab­biato. E allora vado a cer­care tra i suoi versi soste­gni alla mia improv­vi­sata tesi.

Ecco il primo: «I topi sen­tono gli occhi/ quando mi sol­levo a vederli./ Si muo­vono con gambe lunghe/ di uomo nella stanza./ Resi­stono per­ché sanno/ che anche io alla fine mi addormento/ e per loro sarà libero giuoco./ La coda è la grande ala/ che raschia e con quella/ il topo vola dai buchi/ pal­lot­tola dall’animo/ dei fucili al bersaglio./ O mio cuore antico, topo/ solenne che non esci fuori…»

Ecco il secondo: «Come le mosche mori­bonde ai vetri/ scor­rono ai can­celli i prigionieri,/ è sem­pre chiuso l’orizzonte. Ecco il terzo: Il bal­cone, la tem­pe­sta, mio padre un punto nero./ Mio padre un punto nero/ si mette al balcone/ a sen­tire la tem­pe­sta. Ecco il quarto: Ho le carni verdi del fan­ciullo battuto./ Vado coi qua­derni al petto/ infilo parole come insetti,/ mi tengo la testa in altro mondo,/ non seguo più gli orari/ dell’alba e del tra­monto. Ecco il quinto: Chi non dorme nel mare sonnolento/ delle ristop­pie unite, sulle spoglie/ dei calan­chi, gli abigeatari./ Scan­sàti alle tamerici,/ sulla sab­bia accolta del fiume,/ get­tano i man­telli neri,/ amano il loro mestiere, uomini sono gli abi­gea­tari, spi­riti pel­le­grini della notte, si cibano all’alba».

Que­sti sono versi che forse dice­vano molto ai grandi soste­ni­tori di Rocco Sco­tel­laro. Per Carlo Levi e Man­lio Rossi Doria era ine­vi­ta­bile leg­gere il poeta di Tri­ca­rico sotto la lente del loro grande magi­stero civile. Un magi­stero che non impedì a entrambi di vedere che Rocco non par­lava solo della Luca­nia e del Mez­zo­giorno, ma delle ango­sce di una «peri­co­lante giovinezza».

Non sono un cri­tico let­te­ra­rio. Ho sem­pre letto gli autori per deru­barli più che per capirli. Ora mi dispiace di non aver segnato in rosso la parola gab­bia leg­gendo le poe­sie e quindi non posso citare i versi che per prima mi hanno indotto a que­sta sug­ge­stione kaf­kiana. Mi pare che in Rocco e Franz ci siano molte simi­li­tu­dini nel modo di sen­tire la lin­gua, di muo­verla senza sol­le­varla, di tenerla nuda e ade­rente al mondo in cui si trova. Forse non conta molto il fatto che uno abbia fatto il sin­daco e l’altro l’impiegato. A me sem­brano gemelli. D’ora in avanti pro­verò a capire da dove viene que­sta sen­sa­zione, magari li leg­gerò in paral­lelo, come travi di ferro dello stesso binario.

Oggi ho letto poche pagine di Sco­tel­laro. Sta­mat­tina ero den­tro il dolore di sen­tirmi avvi­lito. Pre­fe­ri­sco dirmi avvi­lito piut­to­sto che depresso. Non mi piace usare le parole che usano i medici. Oggi comun­que ho preso una deci­sione. D’ora in poi cer­cherò di dare meno ascolto a chi mi cri­tica e più a chi mi vuol bene. In effetti in que­sti anni ho rivolto la mag­gior parte delle mie atten­zioni al sabo­ta­tore interno e a quelli esterni. Poco mi sono occu­pato del bene che mi voglio e del bene che mi vogliono altri. Ci sono gior­nate in cui almeno riu­sciamo a fis­sare dei pro­po­siti. Magari non li rispet­tiamo, ma per la prima volta ci sem­bra di sapere bene qual è la strada.

«Caro Franco, sono Daniele, di Lecce, e ci siamo incon­trati quest’estate a Fran­ca­villa (ora mi trovo in pro­vin­cia di Ber­gamo, per for­tuna, per una sup­plenza). Appro­fitto della nota 5 del tuo Dia­rio inver­nale per scri­vere un pen­siero che mi ronza in testa da tempo e che si è raf­for­zato dopo avere letto, di recente, Ter­ra­carne. Leg­gendo di Kafka e Sco­tel­laro mi è venuto in mente il paral­le­li­smo che Cesare Gar­boli aveva pen­sato per acco­mu­nare Anto­nio Del­fini e Kafka. Vado a memo­ria, ma nell’introduzione ai Diari di Einaudi dello scrit­tore mode­nese, Gar­boli parla della scrit­tura di Del­fini come di una secre­zione natu­rale, di quella bava che la lumaca lascia per terra al pro­prio pas­sag­gio. La scrit­tura, dun­que, come qual­cosa di asso­lu­ta­mente con­creto e fisio­lo­gico, come tu fai da anni, è qual­cosa di vivo e di pul­sante, non di spon­ta­neo e impres­sio­ni­sta (per que­sto non espe­ri­bile da tutti), ma un lavo­rìo costante che cono­sce bene chi è poeta delle cose: come te e i grandi scrit­tori. E tutto que­sto alla fac­cia – ma senza risen­ti­mento – di quella cosid­detta «let­te­ra­tura dell’inesperienza» che per alcuni autori e cri­tici è il luogo che ci tocca abi­tare in que­sti nostri anni. Per­tanto, ma è pro­ba­bile che tu l’abbia già letto, con­cludo e ti sug­ge­ri­sco quelle bel­lis­sime pagine di Gar­boli su Del­fini, pro­prio per pro­vare a imba­stire un discorso cri­tico che leghi insieme Kafka, Sco­tel­laro (che ho la colpa di aver letto poco) e ovvia­mente il tuo stesso lavoro. Ti con­ti­nuo a leg­gere con grande ammi­ra­zione. Un caro saluto, Daniele. ps. non sarò a Lecce il 20 di dicem­bre per­ché ritorno a casa solo il 23».

Oggi il dia­rio lascia la parola a un gio­vane del Sud che vive al Nord. Non mi ricordo la sua fac­cia, è una delle tante facce incon­trate in que­sti mesi. Ora spero di ricor­darmi il suo nome. Devo tenere fede al pro­po­sito di ieri: dare atten­zione a chi c’è e non a chi non c’è, come ho fatto pra­ti­ca­mente per tutta la mia vita.

Vengo da una notte in cui la solita cena maso­chi­sta mi ha messo in un sonno di carta velina. Vediamo se da que­sta sera riu­scirò ad arri­vare al sonno senza zavor­rarmi di cibo.

Ai tempi di Sco­tel­laro non c’erano tutti que­sti dol­ciumi in giro.

Ieri sera cer­cavo Sco­tel­laro nelle anto­lo­gie let­te­ra­rie del Nove­cento e non l’ho tro­vato. La por­che­ria della Gel­mini, fir­mata da Napo­li­tano, in cui la poe­sia del Sud viene can­cel­lata dai libri di testo non è ancora stata tolta dai mini­stri, due, che si sono suc­ce­duti. La fac­cenda in fondo non ha scan­da­liz­zato quasi nes­suno, a par­tire dagli inse­gnanti meri­dio­nali, che sono tanti sia al Nord che al Sud. Ora ho in fac­cia la luce di que­sto pal­lido pome­rig­gio dicem­brino. Devo deci­dere se restare qui a scri­vere o uscire den­tro il mondo per cer­care di sfo­gare in qual­che modo il mio males­sere. Io comun­que Sco­tel­laro lo avrei messo in qua­lun­que anto­lo­gia del Nove­cento. E invece la rac­colta delle sue poe­sie, da tempo esau­rita, non è stata più ristam­pata. Lui ha una lin­gua e un mondo. Il tempo si è inca­ri­cato di far sbia­dire molto la lin­gua e il mondo di tanti poeti che in quelle anto­lo­gie ci stanno. Non so che altro dire. Provo a guar­dare le foto che ho fatto sta­mat­tina a scuola, provo a sce­gliere quelle belle e domani le porto a scuola. C’erano occhi belli stamattina.

Ho scritto varie volte che la crisi, più che eco­no­mica, è teo­lo­gica. E se è teo­lo­gica è più grave al Nord che al Sud. Man mano che il mondo si svuota di spi­rito, i posti che sem­brano più resi­stere sono quelli che hanno ancora una bella luce. Per que­sto oggi c’è più forza nel Sud che nel Nord. Non se ne parla più in Ita­lia di que­sta sto­ria del Nord e del Sud, ma è una sto­ria che c’è ancora. Il fatto è che con la fine della moder­nità que­sta sto­ria è entrata in un’altra fase. Non c’è un’Italia che sta davanti e una che sta indie­tro. Scrivo que­ste cose con rab­bia, oggi la mia vita è arrab­biata. Non ho liri­smi, dol­cezze. Non mi resta che alzarmi dalla sedia e uscire. Fuori c’è il Sud e io fino alla fine con­ti­nuerò a guardarlo.

È morto a trent’anni e adesso pen­siamo che sia morto gio­va­nis­simo, ma nel 1953 avere trent’anni signi­fi­cava già essere molto lon­tani dalla gio­vi­nezza. Dalla nascita alla morte di R. Sco­tel­laro è il testo bel­lis­simo scritto da Fran­ce­sca Armento, la madre di Rocco. Non capi­sco per­ché non lo fanno leg­gere nelle scuole. Cosa pen­sano che sia la let­te­ra­tura i fun­zio­nari mini­ste­riali? La let­te­ra­tura non è il buon ita­liano, ma è la lin­gua into­nata. In que­sto caso c’è una donna che scrive la sto­ria del figlio e il mistero è che ogni sil­laba è bagnata nel dolore e nello stesso tempo è asciutta.

Ora guardo il libro illu­mi­nato dalla lam­pada. Il buio è arri­vato e già tutto ben disteso intorno al libro e intorno alle mie ossa. Sto scri­vendo dal fondo della mia soli­tu­dine. Io non sono gene­roso come Rocco. Se lo sono devo tro­vare ancora chi me lo rac­conta quello che sto offrendo al mondo. Quello che sento sem­pre è la mia insof­fe­renza, la mia impa­zienza. E que­sta sma­nia di dire tutto, di pren­dere le parole da ogni piega del mio corpo e por­tarle alla luce. Le parole che prendi dal corpo pro­du­cono altre parole den­tro il corpo, fanno altre pie­ghe. Alla fine la let­te­ra­tura è un alle­va­mento di pie­ghe, di crêpe.

Mi sono segnato que­sta frase nel testo della madre di Rocco: «Lui era così afflig­ge­vole: voleva aiu­tare e dare soc­corso a tutti, tanto che se avesse avuto pro­prietà per suo conto l’avrebbe con­su­mata per i poveri. Allora non era come adesso, che il sin­daco prende la paga: lui niente. Ma quel poco che io gli davo in tasca, lo dava ai poveri». A Tri­ca­rico ho par­lato con Giu­seppe Infan­tino, padre di Anto­nio, cent’anni da poco più d’un mese. Lui lo cono­sceva bene Rocco e mi ha rac­con­tato la scena di un povero che si avvi­cina a Rocco e lui mette mano al por­ta­fo­glio. Forse per que­sto la sua scrit­tura è povera, tutta scritta con le tasche vuote, senza vezzi, con un respiro fre­sco, pulito. Rocco non amava i preti, ma se la chiesa volesse fare un santo degno di que­sto nome, forse dovrebbe pen­sare a Scotellaro.

Il Manifesto 27.12.2013