Può il Sud fare come il Nord?
di Enzo Giustino
A proposito del dibattito in corso sui rapporti tra Nord e Sud e sul futuro di quest’ultimo, è forse il caso di ricordare che il Mezzogiorno è sempre stato, a partire dalla ricostruzione post-bellica, un grosso supporto sia per il processo di consolidamento e di espansione industriale delle Regioni del Nord; sia per lo sviluppo dell’intera economia italiana. E questo fu chiaro sin dall’inizio. Basterebbe rileggersi gli atti parlamentari sull’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno e poi le cronache di quegli anni, per rendersi conto di quale sia stato il contributo del Mezzogiorno e dei meridionali, in particolare quello degli emigrati al Nord.
Ma quello di cui non sempre si è preso atto, ed è forse giunto il momento di farlo, è che sin dal primo momento la solidarietà delle Regioni del Nord nei confronti di quelle del Sud è sempre stata, a maggior ragione lo è oggi, costantemente alimentata da una compartecipazione attiva. Nella mia lunga esperienza in Confindustria ho sempre trovato conferma di questo stato di cose. Realtà questa che subì una radicale inversione di tendenza verso la fine degli anni Settanta. Cioè quando, con la crisi di quegli anni, creata da eventi internazionali e interni cumulati insieme, si determinarono le condizioni affinché nel paese, ma soprattutto nel Parlamento, si generasse quella che a suo tempo si ebbe ragione di definire «la conflittualità permanente» per ogni provvedimento di spesa. Specie se a favore del Mezzogiorno.Oggi le cose sono profondamente cambiate. Il crollo del muro di Berlino, l’espansione a Est dell’Europa, l’individuazione di un nuovo cuore della stessa, la globalizzazione, la crisi finanziaria ed economica che investe il mondo intero, hanno creato condizioni tali che l’arroccamento economico e sociale del Nord non è più la pretesa di un partito nato a suo tempo dall’emergenza finanziaria, ma la conferma del sentire della società settentrionale nel suo insieme, dal settore economico e dalle imprese in particolare. E questo spiega anche il fiorire di tanta letteratura, come si è già avuto modo di sottolineare su questo giornale, che ha per oggetto proprio la rappresentazione di questo «vincolante» peso che si chiama Mezzogiorno.
Ad arricchire questa collana di contributi in questi giorni se ne è aggiunto un altro, che a mio sommesso parere coglie pienamente la vera sostanza del problema. Che conferma cioè la tesi, secondo la quale o il Mezzogiorno si ritaglia un proprio ruolo nel contesto italiano ed europeo; oppure dovrà rassegnarsi a un destino di emarginazione e di periferia, come previde uno studio dell’«European Institute» nei lontani anni in cui fu creata l’Europa a 15. Ma cosa si sostiene in quest’ultimo lavoro a cura di Paolo Perulli e Angelo Pichierri dal titolo La crisi italiana nel mondo globale. Economia e società del Nord. (Einaudi Editore)?
La spiegazione in termini molto chiari è contenuta soprattutto nella prefazione di Piero Bassetti e nella introduzione dei curatori. Piero Bassetti evidenzia innanzitutto la necessità di «fare discorsi più aggiornati emoderni sulla nostra unità nazionale». In particolare di far prendere atto all’opinione pubblica italiana «che c’è un pezzo di continente euro-mediterraneo— il Nord d’Italia— che esiste e fa sistema con il resto dell’Europa e del mondo, anche al di là dei suoi rapporti col resto d’Italia». Lo stesso Bassetti osserva al riguardo: «cose interessanti ma anche inquietanti». D’altra parte i curatori trattano quella del Nord come una «Regione multi-nodale del mondo» e non più come la parte settentrionale dell’Italia. Un implicito monito al Sud a fare altrettanto, è il commento di Bassetti. Per la verità una problematica questa che divenne chiara già tanti anni fa, all’epoca del crollo del muro di Berlino. Ora la domanda è: può il Sud divenire anch’essa una Regione multi-nodale del mondo per fare sistema con il resto dell’Europa e nel mondo? Se si tiene conto delle potenzialità e delle risorse di cui il Sud dispone, coniugate con un possibile ruolo strategico nel Mediterraneo, certamente sì. Ma come? Con un partito? Non saprei dirlo. Ciò che appare comunque assolutamente fondamentale è la creazione di una opinione pubblica consapevole e disponibile, disposta ad acquisire cultura di governo sotto ogni profilo e ad assumere comportamenti coerenti. Ed è in tutto questo che il federalismo fiscale potrebbe avere un senso, divenire cioè un utile strumento per programmare prima e verificare poi durante il percorso.
Corriere del Mezzogiorno (Napoli e Campania) 13.04.2010