«Vite buttate per 50 euro»

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di Guido Ruotolo

La donna piegata dal dolore abbraccia i suoi due figli. Li tiene bene stretti al petto. Quasi a voler comprimere la sofferenza, a voler fare implodere la rabbia. Lei è una nuova vedova del lavoro. Fino a quando dovremo continuare a indignarci per le vittime di mafia, di sanità, e anche di lavoro? Scoppia di lacrime la povera Lina, l’orfana ormai di Giuseppe Cecere: «Solo tre giorni di ferie gli hanno fatto fare e poi l’hanno richiamato... Mio padre era un muratore che con quel lavoro non c’entrava nulla... Soffriva di mal di schiena, si faceva le punture. Voglio giustizia...»

Risuona come una bestemmia la firma dell’autore della condanna a morte, l’ammissione di colpa con quella telefonata dell’altra sera: «Te vuoi abbusca’ cinquanta euro? Vieni a fatica’...». Vuoi guadagnare 50 euro? Vieni a lavorare...

Si può morire per cinquanta euro? Si può accettare questo scandaloso ricatto? E perché non si rispettano le norme di sicurezza?

«Si può vede’? Come sta? Ha sofferto?». Fuori l’obitorio dell’ospedale di Caserta, nel padiglione di medicina legale dove martedì sarà effettuata l’autopsia, i parenti di Antonio Di Matteo, 63 anni, un’altra delle tre vittime del lavoro, si informano. «Sta’ bene. Non ha sofferto. E’ morto d’asfissia...». Dialogo surreale tra un addetto all’obitorio e una parente. C’è sempre una umanità dolente che prende il sopravvento. Il figlio di un cugino della vittima: «Che siete venuti a fare? Gli articoli si devono scrivere prima. Io faccio l’autista di linea, lavoro 25 ore al giorno, devo essere sempre a disposizione per 900 euro al mese. Ho tre figli e un mutuo da scontare».

Dolore e sgomento alla Dsm, la fabbrica della morte. E’ di un gruppo olandese e si occupa di chimica farmaceutica, produce enzimi e molecole antitumorali. Centottanta dipendenti e un centinaio quelli dell’indotto. Un suo dirigente, moderno Ponzio Pilato: «Non sono venuti a lavorare per morirema per guadagnare la pagnotta».

I sindacati protestano unitariamente: «E’ inammissibile che si possa morire ancora di sicurezza». Maè come se al di là della testimonianza i sindacati non riuscissero più a controllare la giungla delle ditte del subappalto. A impedire questa mattanza di viteumane.

I cancelli della fabbrica. Il lungo camminamento fino ai silos, reattori, cilindri. L’ingegnere Michele Granzillo è un dirigente dell’Asl che è stato delegato a compiere l’indagine tecnica, per accertare le cause della morte dei tre carpentieri. In attesa dell’autopsia, Granzillo racconta: «Quasi certamente i tre operai sono morti asfissiati. I tre si sono introdotti nel reattore di fermentazione vuoto per smontare l’impalcatura. Il giorno prima, venerdì, un’altra ditta aveva fatto il controllo periodico e le verifiche tecniche di tenuta».

I tre carpentieri lavoravano per la Errichiello di Afragola. Dovevano calarsi nel reattore e smontare un ponteggio su quattro livelli, complessivamente profondo 12 metri. Stop. Quei ponteggi, poi, dovevano rimontarli inun altro reattore.

Il giorno prima, altri operai di un’altra ditta esterna, la «Rivoira» di Anagni, avevano fatto le verifiche di manutenzione. In sostanza, controllate le pareti avevano poi immesso una miscela di azoto ed elio nel reattore chiudendolo ermeticamente, per verificare eventuali perdite esterne del reattore. Ieri mattina, i tre della Errichiello si sono calati nel cilindro e sono morti.

«La depressurizzazione del reattore era già stata effettuata». Ma naturalmente qualcosa non ha funzionato.

Quel cilindro quando è in funzione viene riempito di una miscela d’acqua, sali e sostanze sciolte (tra cui farina di soia, lievito, glucosio...), alimentata da aria per dare ossigeno alla coltura in fermentazione, con l’aggiunta di acido e soda per correggere il livello del ph.

Ma davvero quella di Capua è una strage annunciata? Non è tanto il fatto che i tre carpentieri non avessero le mascherine, quanto il fatto che - spiega l’ingegnere della Asl - «nei locali dove sono state introdotte sostanze nocive, occorre intervenire con un sistema di rilevazione, a maggior ragione se si prevede l’intervento umano in quel locale».

Di fronte a una «parcellizzazione» del ciclo della manutenzione - a Capua, sono almeno quattro le imprese coinvolte nell’incidente sul lavoro che ha provocato tre vittime - bisogna individuare le responsabilità di ciascun soggetto coinvolto. I vertici della Procura di Santa Maria Capua Vetere si apprestano a spedire una raffica di avvisi di garanzia.

La Stampa domenica 12 settembre 2010