Indagine sulle ragioni profonde del declino del Bel Paese

di  Andrea Lorenzo Capussela

lampadinaFOTO UNSPLASH

Una  leonessa in gabbia, che rasenta le pareti cercando un varco. Così pare l’Italia, stretta dalla sua crisi e ansiosa di qualcuno che la salvi. Ora, improbabilmente, il demiurgo parrebbe essere Giuseppe Conte. Ma la lista è lunga, dalla cesura del 1992–94, se ai nomi scelti dal popolo sommiamo quelli osannati dall’opinione assennata (Antonio Di Pietro, Silvio Berlusconi, Mario Monti, Beppe Grillo, Matteo Renzi, Matteo Salvini). Il Covid-19, la stagnazione economica, e in politica il deserto delle idee e i barbari alle porte: queste le componenti della crisi italiana, che minaccia sia la sopravvivenza del fragile equilibrio sul quale viviamo sia la nostra prosperità futura.

Il primo passo

I due piani vanno però tenuti distinti. Nell’immediato la priorità è chiara: superare la pandemia senza troppi lutti e danni. Ciò richiede un esecutivo capace di riscuotere un minimo di fiducia dai cittadini, distribuire il vaccino e imbastire un programma di investimenti per i fondi europei: altrimenti la coesione sociale e la stabilità politica e finanziaria potrebbero rompersi. Ma ora bisogna prendere provvedimenti che, oltre a tenerci a galla, ci dirigano verso acque sicure. Per farlo bisogna comprendere le cause del declino, e per comprenderle bisogna fare un passo indietro. Nel primo decennio del secolo l’economia italiana ebbe il tasso di crescita medio annuo più basso del mondo. La doppia recessione 2008-14 fu la più grave della storia unitaria. E nel quinquennio successivo la crescita non raggiunse la metà della media dell’eurozona. È per questo che già prima della pandemia il reddito degli italiani era tornato al livello della metà degli anni Novanta; né sorprende che nel quarto di secolo che si separa da allora la demagogia abbia largamente dominato la scena politica. È vero che nello stesso arco di tempo la crescita è rallentata pressoché in tutto l’Occidente, che il populismo si è diffuso alle società più insospettabili, e che il capitalismo liberale è ovunque oggetto di critica e revisione, per le troppe promesse tradite. Ma il declino dell’Italia spicca.

Gli altri

Francesi, spagnoli e anche tedeschi hanno buone ragioni per lamentarsi del ventennio passato, in particolare, ma i loro redditi non sono scesi al livello del 1995, come in Italia: rispetto ad allora sono cresciuti di circa un quarto. E sebbene i populisti siano cresciuti in quasi tutte le democrazie consolidate dell’Europa continentale, dove pure la rivoluzione neo-liberale è stata meno radicale che nel mondo anglosassone, in nessuna hanno vinto la vasta maggioranza dei voti e dei seggi, come in Italia. L’aumento del disagio e della povertà, il degrado delle regioni periferiche, le disparità sociali sono tali, anzi, che è lecito stupirsi che lo scontento non si sia tradotto in proteste disordinate. La coesione sociale, la fiducia reciproca e la lealtà verso la Repubblica hanno retto, invece, e sotto il fuoco del contagio i cittadini hanno dimostrato responsabilità, impegno civile e solidarietà. Se dunque l’Italia ha problemi più gravi delle democrazie sue pari, ma resta recuperabile, per invertire il declino in sviluppo bisogna comprenderne le ragioni.

La mia ipotesi è che i nostri mali politici ed economici abbiano radici comuni. La principale causa prossima è la stagnazione della produttività, che è il vero motore della crescita, e soprattutto la stagnazione della sua componente che riflette l’innovazione tecnologica e organizzativa, che inizia a rallentare già negli anni Ottanta; ed è verosimile che ciò dipenda principalmente dalla debolezza della concorrenza e della supremazia della legge. La ragione è intuitiva. La crescita fondata sull’innovazione, la sola veramente sostenibile nel lungo periodo, è un processo conflittuale di «distruzione creatrice», nel quale le nuove innovazioni scalzano le precedenti (si pensi al passaggio dal telefono fisso al telefonino allo smartphone). Ma se i mercati non sono aperti alla concorrenza, e se la legge non è uguale per tutti (perché non tutti la rispettano), gli innovatori avranno poco spazio e il ciclo delle innovazioni rallenterà. E ciò generalmente avverrà dove le élite economiche – le cui posizioni acquisite sono minacciate dalla distruzione creatrice – hanno eccessiva influenza sulla politica. Tralascio qui la concorrenza per concentrarmi sulla supremazia della legge.

Esistono stime, elaborate della Banca mondiale, di quanto le leggi tendano a essere rispettate nei diversi paesi. Il divario tra l’Italia e le altre grandi democrazie occidentali è vasto e crescente. Su una scala che va da 2,5 a -2,5 il livello dell’Italia è 0,25: la media dei suoi pari è 1,44 (per paragone, la media dei paesi balcanici estranei all’Unione europea è -0,22). Nel 1996, il primo dato disponibile, il livello dell’Italia era 1,06 e la media dei suoi pari 1,50: uno scarto (-0,44) inferiore alla metà di quello attuale (-1,19). Queste stime vanno lette con molta cautela, ma altri dati – sulla corruzione e l’evasione fiscale, per esempio – le confermano enfaticamente. In Italia la supremazia della legge è debole, ed è calante. Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia, la definisce così: la supremazia della legge «è ciò che impedisce ai pochi di rubare ai molti». La legge protegge i deboli, non i forti, e meno le regole sono rispettate più i potenti possono dominare chi ha meno potere.

Il controllo

Quindi la supremazia della legge può degradarsi, e restare debole, solo se i cittadini hanno scarso controllo sulle autorità che li governano: altrimenti esse non permetterebbero all’interesse dei «pochi» di prevalere su quello dei «molti». Il controllo sulle autorità pubbliche, a sua volta, dipende dal regime di responsabilità politica sotto il quale esse agiscono: ossia dipende dalla qualità del sistema elettorale e dei partiti, dall’indipendenza dei media, dall’attivismo dei cittadini, e da tutto ciò che agevola la critica pubblica. In Italia anche la responsabilità politica è relativamente debole. Questo intreccio tra la debolezza della supremazia della legge e la debolezza della responsabilità politica spiega larga parte del declino.

L’Italia non cresce, da un quarto di secolo, perché la produttività è ferma; ristagnano in particolare i redditi delle classi basse e medie; l’interesse dei «pochi» prevale troppo spesso su quello dei «molti», grazie alla frequente collusione tra élite politiche ed élite economiche; e tutto ciò genera sfiducia politica, inceppa la democrazia rappresentativa, ostacola le riforme, e alimenta la demagogia. Questa, in una parola, è la spirale che stringe l’Italia. Per invertirla non occorrono demiurghi ma idee per organizzare la società in modo più equo ed efficiente, e attori politici collettivi capaci di raccogliere la vasta coalizione che dovrà porsi questo obiettivo (che includerà parte delle élite: quelle innovatrici). Questo non avverrà domani, naturalmente, ma è in questa direzione che bisogna operare; e le implicazioni dell’analisi che ho appena riassunto possono essere utili anche nell’immediato.

Ne cito solo una sola, ovvia. La pubblica amministrazione è lo strumento tramite il quale lo stato agisce nella società, ed è decisiva per la supremazia della legge e la produttività. In Italia è inefficiente, e ha resistito a svariati tentativi di riforma perché influenti minoranze – perlopiù esterne all’amministrazione – beneficiano della sua inefficienza. La tentazione di scavalcarla invece di migliorarla, affidando il Recovery fund a organismi ad hoc, è comprensibile: così fecero il regime fascista, dopo la crisi del 1929, e la prima classe dirigente della Repubblica, e forse ebbero ragione. Ma l’urgenza della crisi, che può travolgere la resistenza di quelle minoranze, ci offre l’opportunità di fare una scelta più lungimirante.

Domani 2 febbraio 2021