Memorie di un partigiano

di Michele Cornacchia

Introduzione

Da sempre la storia con la “S” maiuscola, e particolarmente quella militare, ha sottovalutato la documentazione scritta (diari, memorie, epistolari) a la documentazione orale (testimonianze) relegandole nel novero delle fonti minori, prive di pregnanza storica e invece, a ben guardare, da esse emerge con veemenza il punto di vista dei protagonisti che possono aprirci orizzonti mai esplorati. A tal proposito cosi si esprime Nuto Revelli, noto storico:

II rischio che si corre quando si ha una visione cosi limitata, così parziale della storia è notevole. Valga un esempio. Si magari prendono per buoni dei “documenti” che di autentico hanno poco o niente, perché inventati dopo un ciclo operativo, perché scritti a bocce ferme, quando tornava comodo giustificare gli errori dei comandi. E la truppa? I soldati diventano “materiale umano” un'entità numerica: tante le forze impegnate in quella battaglia, tanti Caduti e si volta pagina. Ho sempre creduto nell'importanza delta guerra “vista dal basso” anche se non ho preso per oro colato né le fonti scritte né le fonti orali che parlano della guerra vissuta dal soldato. Chi giudica queste fonti poco attendibili compie una scelta sbagliata, una scelta di casta.

Giuseppe Dambrosio

L'esperienza della guerra

Il 20 marzo 1940 fui chiamato a fare il servizio militare. Il10 aprile la mia compagnia dei Genio 64, compagnia Autieri fu aggregata alla Divisione Misietta. Così ci trasferirono sul confine francese a Claviere ai piedi dello Sciaberton, quel monte era alto 3800 m. Sulla cima era costruita una fortezza, la quale disponeva di 37 pezzi di cannoni. La mia compagnia, con altri reparti, stava costruendo un fosso antiaereo largo 12 metri per 12 di profondità e lungo 500. Noi dormivamo in una capanna. La notte del 9 giugno, mentre dormivamo, sentimmo aprire la porta. Era il capitano che diede subito l'attenti; noi accendemmo la luce a gas e vedemmo un altro ufficiale assieme. II nostro capitano disse con voce alta «Salutate il nostro generale Rossi comandante della divisione Misietta che vi parlerà». Noi tutti ci guardavamo in faccia e dicevamo tra noi: che cosa ci dirà? Per venire il generale qui da noi, di notte, una cosa strana. In quell'istante il generale ci disse: «Dipende da voi la sorte della nostra patria! Bisogna riempire il fossato della strada per far passare le nostre truppe entro domani mattina, perché l'Italia ha dichiarato alla Francia. Alle sette apriremo il fuoco». Lavorammo tutta la notte, la mattina del 10 giugno il cielo era coperto, c'era una nebbia fitta; alle nostre spalle una lunga colonna di carri armati, automezzi con pezzi di cannone trainati, i soldati dell'artiglieria da campagna con i muli e cannoncini da montagna e un intero reggimento di fanteria eccetera, aspettava per passare all'attacco. Alle ore 7 sentimmo arrivare i primi colpi di cannone francesi che colpirono subito la strada che l'obiettivo riattivato: tra noi ci fu una grande paura. Le nostre truppe varcarono il confine francese fino al forte chiamato Gianus. Con altrettanti cannoni sparavano sulle nostre truppe. Il nostro tenente controllava il tempo che noi dovevamo stare. I proiettili nemici colpivano la strada a noi subito si riattivava, riempiendo i fossati. Dopo qualche ora di combattimenti, vedemmo i primi nostri soldati feriti, grondanti sangue, che venivano trasportati con camioncini, con autoambulanze. Certo a vedere per la prima volta tutti quei feriti, chi con un braccio spezzato, chi con una gamba rotta, chi con la testa scorrendo sangue, mi veniva da piangere. Dopo poche settimane, cessato il fuoco, conquistammo parte del territorio francese. Le truppe rientrarono in Italia e noi che facevamo parte del genio civile, rimanemmo a costruire le strade in montagna. Lì ho conosciuto il nostro principe Amedeo di Savoia, accompagnato dal generale Rossi, comandante di divisione, e il generale Cavallero, comandante d’armata.

Dopo la campagna di guerra al fronte occidentale rientrammo a Motte di Castigliole per il riposo. Dopo 10 mesi, a Natale, venni in licenza.

Il 4 aprile 1941 partimmo per il fronte della Jugoslavia.

II 5 aprile, con la tradotta militare, passammo da Trieste, dal cimitero di Redipuglia a arrivammo alla stazione di Aurissina. Ci fecero scendere dal treno. Erano le 4 di sera. Da quel giorno incomincia il nostro lungo cammino. Al calar del sole attraversammo la citta di Postumia. La marcia forzata, con lo zaino che pesava sulle spalle, moschetto, giberno, maschera antigas e l’elmetto in testa. La stanchezza incominciava a pesare su di noi. La prima tappa fu di 150 km, così arrivammo a Campolungo, un piccolo paesino abbandonato. Lì il comandante di compagnia ci fece una morale poiché i viveri scarseggiavano e ci distribuirono dei pacchi di gallette del 1935; erano senza sale e dure come le pietre. II giorno dopo, mentre mangiavamo le gallette, la bocca si infiammò che non potevamo più masticare e le bagnavamo nel brodo che ci davano. La notte del Sabato santo attraversammo il confine jugoslavo e occupammo una caserma abbandonata dai soldati slavi; quella notte pioveva faceva un freddo gelido, occupammo la caserma e ci sdraiammo sulle brande per la stanchezza. Dopo mezz’ora che ci eravamo addormentati, saltammo dalle brande per i pidocchi che si erano infiltrati nelle nostre maglie e mutande di lana che erano verdine e i pidocchi erano dello stesso colore. Erano così grossi che avevano il codino ed erano così affamate che si attaccavano come piattole. E da quella notte non si poteva più riposare. La mattina del sabato Santo il tenente Molinari fece l’adunata del primo plotone comando. Ci diedero quattro bombe a mano a pallottole in canna per andare a togliere le mine da un ponte minato. Fu così che ci inoltrammo nella boscaglia con grandi alberi, abeti colossali, e quella fu la seconda marcia di 45 km. II giorno di Pasqua fu la terza marcia di 40 km e siccome era giorno di Pasqua, la nostra cucina da campo si ferma per fare la pasta asciutta. Nella grande boscaglia la pasta asciutta, cucinata alle ore 9 della mattina arrivò alle 3 di pomeriggio. Pensate un po’ come era diventata: la pasta cotta si tagliava come la ricotta, ma la razione per ognuno di noi era appena di 5, 6 cucchiai. Dopo ognuno di noi si correva a raschiare le marmitte per la fame. E così giorno dopo giorno le marce erano sempre più pesanti, ognuna di 40, 50 km al giorno. La mattina del giorno 20 incomincia a nevicare a non la finiva mai. Si dormiva seduti sullo zaino e il pastrano era diventato tutto un pezzo per il forte freddo gelido. I viveri non arrivavano nella nostra cucina a non ce n’erano più di scorta. Dopo una lunga marcia, stanchi e assiderati dal freddo, e sotto la neve, il comandante fece fare l’adunata a ci fece l’elogio per il nostro comportamento. Però bisognava fare qualche sacrificio. Così chiamò il nostro cuciniere e chiese quanto riso avevamo. II cuciniere prese un sacchetto e lo mostrò: era appena un chilo. II capitano disse: «Ragazzi bisogna che ci arrangiamo, la guerra è sacrificio e noi dobbiamo sacrificarci per la Patria». Così il nostro sacrificio era pesante, il cibo era poco, quasi niente. La neve, il freddo e i pidocchi mangiavano il nostro sangue. Eravamo pieni di scabbia. Notizie dalle nostre famiglie arrivavano con molto ritardo e cancellate dalla censura. La vita diventava più triste che mai. Finalmente arrivammo ad un paese chiamato Smrec. Erano le due di notte a ognuno di noi cercava qualche posto dove dormire: chi nei fienili, chi nelle stalle, chi nelle baracche, riuscimmo a trovare posto per tutti. La mattina, suonata l’adunata, prendemmo un po’ di acqua color caffè, e, dopo, il sergente ci disse di andare a lavare la biancheria sporca. Per fortuna a pochi metri scorreva un piccolo ruscello. L’acqua era freddissima; pensate che cosa potevamo lavare con quell’acqua e senza sapone. Io fui fortunato. Mentre stavo lavando sopra un sasso, battendo la biancheria, a pochi passi c’era una ragazza che stava seminando le patate. Poteva avere 18, 19 anni. Io, finito di lavare la biancheria la misi ad asciugare e mi avvicinai alla ragazza. Ella mi guardò per un attimo e continuò a lavorare. Io non feci altro: presi la zappetta e mi misi anch’io a seminare le patate. Dopo poco tempo arrivò la madre con un paniere di letame che metteva come concime. La figlia la chiamò. Parlarono tra loro e vidi la donna prendere la mia biancheria per portarsela a casa sua. Io dissi, facendo segnali, che era sporca di pidocchi, ma lei fece cenno di aver capito. Verso le 10 venne con un bel cesto pieno, mi chiamò e mi invitò a sedere a terra, mise una piccola tovaglia a mi offrì pane con salciccia, formaggio, prosciutto e grappa. Dopo aver mangiato, mi misi di nuovo a seminare le patate e da quel giorno uscivamo assieme e andavo sempre a mangiare a casa sua. Al momento di rientrare in Italia quella ragazza piangeva, mi abbracciò così forte e fece piangere anche me. Lei si chiamava Doring Olga.

Rientrati in Italia ci accampammo a Villa Nevoso e ci fecero lo spidocchiamento, ci rasarono a zero i capelli, bollirono tutta la biancheria, insomma una specie di quarantena. Il 1942 partimmo per la Sicilia a lì si lavorava facendo fortini sulla costa del mare, articolati eccetera.

Il 9 aprile ci fu un forte bombardamento che distrusse metà Trapani. La mia compagnia era accampata a Paceco e andammo a salvare da sotto le macerie molti feriti. Io, con altri compagni, salvammo una bambina di dieci anni, e io personalmente la madre, la portammo sulla nave ospedaliera. Quella donna, quando guarì mi venne a trovare, mi strinse forte al cuore e mi ringraziò. Il 19 maggio mi trovavo a Palermo, al porto e stavamo caricando due carri di cemento quando arrivarono centinaia di bombardiere americane. Oscurarono il cielo e la gente scappava senza saper dove andare. II bombardamento fu fatto a tappeto.

Il 19 luglio Mussolini lascia il comando dell’esercito e tutti i monumenti furono distrutti e i quadri incendiati.

A fine luglio sbarcarono gli americani. Noi incominciammo la grande ritirata. L’11 agosto 1943, dopo una lunga marcia a piedi, arrivammo sulle montagne di Messina. Erano le due di notte, lo stretto ci pareva un inferno: aerei che bombardavano, la contraerea che sparava, le navi che bruciavano. Sembrava un rogo. La mattina dell’11 agosto ci imbarcammo sulla nave, ma subito suonò l’allarme: di nuovo gli aerei americani bombardavano. Molti di noi si buttarono in mare per la paura. Finito il bombardamento, la nave partì e sbarcammo a Villa San Giovanni. Da Villa San Giovanni fino a Sibari ce la facemmo a piedi e qui ci fecero salire sui carri-merci dove si caricava la breccia. Arrivammo a Gioia del Colle e chiesi al mio capitano se mi mandava a casa, perché non venivo in licenza da due anni. Mi diede 12 ore di permesso e questo era il 7 Settembre 1943. Dopo 12 ore ripartii, raggiunsi la mia compagnia a Borgo San Paolo per raggiungere il fronte russo. Ma il giorno 8 settembre fu dichiarato l’armistizio, tutti gli italiani gridavano per la gioia che la guerra era finita, ma non fu così. Badoglio, maresciallo d’Italia, prese il comando dell’esercito italiano. Mussolini fu arrestato e imprigionato nel carcere del Gran Sasso.

La resistenza

La sera del 10 Settembre 1943 stavamo prendendo il rancio. Il nostro capitano Arnaldo Giacalone ci radunò tutti a ci disse: «Ragazzi il re è scappato giù a Brindisi, l’esercito non c’è più, voi tutti armatevi e combattete contro i tedeschi e i fascisti che sono alleati e traditori».

Da quel momento incominciò una seconda guerra, la guerra del fronte della Resistenza. I fascisti e i comandi tedeschi fecero subito un decreto e, tramite i manifesti, ordinarono che tutti gli sbandati che non si presentavano ai rispettivi comandi tedeschi o fascisti dovevano essere fucilati, e che tutte le famiglie che davano asilo agli [stessi] sbandati dovevano essere fucilati, e bruciate le cascine con tutto il loro bestiame. Ma nonostante tutto la popolazione ci aiutava, continuava a darci da mangiare e a vestire in borghese. Su in montagna si formarono subito le formazioni partigiane: la quarta armata dell'esercito si trasformò in Brigate Garibaldine, altre formazioni presero il nome di Giustizia e Libertà, Corpo Volontari della Libertà. Sui colli delle Langhe si formarono le formazioni Badogliane a cui appartenevo. Io però, distaccato da quelli del maggiore Mauri, appartenevo alla Brigata Bra divisione Amendola, comandata dal Capitano Dellarocca, il maggiore Neri, il colonnello Gancia. Come comandanti di distaccamento Ciccognini e il tenente Franco. A me, dopo tante azioni di combattimenti portate a termine con grandi vittorie, diedero il comando di un distaccamento di 36 partigiani.

La nostra zona comprendeva Fossano, Alba, Bra, Bene Vagienna, Carrù, Piozzo, Dogliani, Farigliano, Cherasco, Lequio, Narzole, Monchiero, Sommariva del Bosco, Clavesana, Molini d'isola, Mondovì eccetera. Il mio accampamento era a Costamagna. Il nostro comando si trovava a Narzole, dopo l'avevo a Podio. Per non essere presi dai fascisti ci spostavamo con i nostri distaccamenti ad evitare brutte sorprese, però eravamo costretti a dormire isolati, uno o due per parte, per di più nei cespugli nascosti. La metà di ottobre del 1943 gli americani e gli inglesi ci mandarono, con lunghi paracaduti, armi, munizioni eccetera. Il lancio fu fatto alle ore due del pomeriggio e quello fu uno sbaglio perché da Mondovì, dove c'erano le brigate nere al comando del maresciallo Graziani, videro tutto. Il giorno dopo ci attaccarono in grande stile con carri armati tigre, che avevano in dotazione dai tedeschi, e con tutte le loro forze per impossessarsi delle nostre armi. Certo ci fu un forte combattimento da tutte e due le parti, ma noi, pur essendo senza automezzi pesanti e senza carri armati, resistemmo per non far prendere le armi ai fascisti. Ci furono grosse perdite da parte nostra, nel senso che si pensava a nascondere tutte le armi, munizioni, eccetera, scavando fossati per nasconderle.

Così ci fu uno sbandamento da parte nostra per una ventina di giorni, però si combatteva sempre. Noi avevamo al centro della nostra zona un campo di concentramento, dove avevamo prigionieri i tedeschi e fascisti, e quella borgata si chiamava Rocca Ciliè. ln quella battaglia i prigionieri che avevamo scapparono e due di quei fascisti furono presi dai miei partigiani. Loro andavano in giro in borghese con un maglione nero e avevano addosso la pistola. Furono portati al nostro accampamento. Io non mi trovavo lì perchè ero andato con i miei uomini in azione. Quando rientrammo, vedemmo questi due giovani legati ad un albero che piangevano. Io mi avvicinai e chiesi chi erano, da dove venivano e se erano fascisti. Loro negarono tutto questo. Il nostro colonnello e il maggiore li volevano fucilare perché potevano essere delle spie fasciste, perché furono trovati con le pistole addosso. Loro parlavano siciliano, così chiesi ai miei superiori di essere clementi e di assumermi tutta la responsabilità verso di loro. Li presi con me e, per tenerli sotto controllo, li nominai cucinieri.

Arrivò l’inverno, il freddo e molta neve. Noi fummo costretti a nascondere le armi più pesanti, mitraglie eccetera. Io nascosi le armi sotto un porticato mettendole sotto terra ma, per essere più sicuro, la notte stessa le andai a nascondere in un’altra parte da solo.

La notte di Capodanno stavamo festeggiando a Lequio assieme ai borghesi: si ballava a si cantava e si beveva. La mattina dopo, quei due non c’erano più. II giorno 9 gennaio 1945 arrivarono cinque carri di fascisti per prendere le armi che io avevo nascosto. Non le trovarono. Andarono al comando e fecero prigionieri il maggiore Ned, il tenente Franco e l’autista, li portarono a Cherasco e subito li fucilarono. Solo l’autista rimase salvo. Noi mandammo il prete del paese a parlamentare col comandante, il colonnello Colombo, e lui ci chiese in cambio due prigionieri tedeschi. La notte precedente ci appostammo sulla strada tra Alba e Bra, tagliammo un palo, lo legammo ad un altro palo del telefono a lì passammo tutta la notte. II freddo era gelido, faceva rabbrividire le ossa, il vento soffiava forte. Per noi quella notte fu una lunga notte. Non passava mai. Si sentiva solo il fruscìo che faceva muovere i rami degli alberi e non si pensava che al nostro partigiano. Ma nessuna macchina si sentiva. Nei nostri cuori c’era tristezza. L’alba era vicina. Il sole tra le nubi era anche lui triste, ma ecco che sentimmo un rumore che più si avvicinava più si distingueva: era il rumore di una macchina, e difatti era una macchina tedesca. Appena arrivò vicina, tagliammo la corda che fece cadere il palo che blocca la strada. La macchina si fermò e noi, con i mitra spianati, facemmo prigionieri i due ufficiali tedeschi e l’autista. Li portammo a Cherasco.

Chiedemmo del comandante e cosi avvenne lo scambio dei prigionieri. Fu così che salvammo il nostro partigiano. Però a noi non sfuggiva niente. Quelli che non avevo fatto fucilare, che avevano fatto fare prigionieri il maggiore e il tenente, stavano a Cherasco nelle brigate nere e bisognava prenderli. Così preparai un piano per prenderli prigionieri. Noi a Lequio conoscevamo una bella ragazza bionda, si chiamava Gina. Chiesi a lei di collaborare con noi e se era disposta ad andare a Cherasco per agganciare uno di quelli. La ragazza lo conosceva e accettò il rischio che correva, difatti si mise in cerca di lui a Cherasco nell’osteria. Dopo una settimana si incontrarono a ballarono assieme facendolo illudere che lo amava. Quando vide che era pronto per portarlo fuori, venne da me dicendomi che per la sera dopo lo avrebbe portato lontano dal paese, cosi lo potevamo prendere. Quella sera lo fece ubriacare e lo condusse lontano dove aspettavamo noi e, con un abbraccio e baci, lo prendemmo prigioniero, lo portammo a Lequio. Lì c’era una piccola piazzetta con un albero di quercia al centro, lo legammo all’albero e lì fu condannato a morte…

Oltre i fascisti c’erano i tedeschi a fare la guardia al ponte che attraversava il fiume, la Stura, che collegava Cherasco a Monchiero. I tedeschi avevano progettato di requisire tutto il raccolto e il bestiame agli agricoltori per mandarlo in Germania. II maggiore Mauri si mise in contatto con il nostro comando, dicendo di far saltare il ponte per impedire che portassero via tutto prima, perché non andasse a finire in Germania e poi perché avevamo bisogno noi. Così di notte si andò giù al fiume. Quattro di noi uccisero le due sentinelle tedesche che erano di guardia e gli altri prepararono le cariche attorno alle arcate che reggevano il ponte. II ponte era abbastanza lungo. Preparammo delle bombe nei buchi delle colonne, le collegammo sulla strada, ci mettemmo molta balistite per quasi cento metri di lunghezza e l’accendemmo. Scappando via di corsa, ci buttammo di pancia per terra per lo scoppio che doveva fare.

Quando la miccia fu accesa, fece un grande bagliore e poi un grande scoppio. In quell’istante tutta la terra tremò. Tre arcate saltarono in aria. La mattina dopo i tedeschi presero tutti gli uomini di Cherasco e persino il prete per far ricostruire il ponte in legno, ma noi lo incendiammo per due volte e così rimase solo una passerella per poter passare a piedi. Poi seguì il ponte di Polenzo sul Tanaro, poi la galleria ferroviaria di Dogliani, facendo bloccare il treno sotto la stessa galleria. Dopo fu la volta del comando della milizia ferroviaria che stava ad Alba. Mandammo il prete a dire di lasciare via libera per l’intero giorno. Il giorno dopo arrivò un treno blindato da Torino vicino alla stazione di Alba. I fascisti fecero un cordone, tutti armati fino ai denti, per paura che noi aprivamo il fuoco. Noi, in borghese, guardavamo i loro movimenti. Poco prima che il loro treno blindato partisse con tutta la roba che avevano caricato, noi li andammo ad aspettare alla stazione di Sommariva Bosco. Era lì che doveva fare coincidenza con il treno passeggero che veniva da Torino. Facemmo scendere tutti i passeggeri dal treno aprendo il fuoco. Noi eravamo dieci partigiani e concentrammo il fuoco in tutte le direzioni con due mitraglie che avevamo. Dopo un’ora di combattimento, bisognava vedere come quelle carogne fasciste lasciavano le loro armi e scappavano spogliandosi delle loro divise e noi ridevamo per la soddisfazione della vittoria. Ci portammo via tutto il bottino di armi e munizioni e subito dopo facemmo partire il treno.

La guerra partigiana è stata una guerra fratricida. Si combatteva fratelli contro fratelli. È stata una guerra sanguinosa, fino al punto di uccidere il proprio figlio.

Una donna, squadrista e fascista, fece prendere suo figlio che era partigiano. Era nella mia formazione, aveva 18 anni ed era un bravo ragazzo. La mamma lo fece arrestare dai suoi aguzzini fascisti e, legatolo con una corda sulla sedia nella piazza di Cherasco, lo fece fucilare. Noi, dopo, lo prendemmo e gli demmo sepoltura. Quella corda e quella fune la conservammo e le demmo la caccia per più di venti giorni. La prendemmo prigioniera e, con la stessa fune sulla stessa sedia e nella stessa piazza di Cherasco, la condannammo. I fascisti erano troppo vigliacchi e traditori. Erano capaci di fare qualunque cosa pur di riuscire a mettere la popolazione contro di noi partigiani.

Erano vili perché si vestivano con le divise partigiane, saccheggiavano le cascine, portando via il bestiame, frumento, dicendo che erano stati i partigiani a fare quei misfatti e noi, per non macchiarci di quelle infami azioni, fummo costretti a dare loro la caccia, prendendoli come prigionieri e facendoli giudicare dal popolo. E così avvenne. Per noi partigiani, i primi tempi, era difficile fronteggiare i fascisti e i tedeschi con poche armi e mezzi, ma, in ognuno di noi c’era lo spirito di volontà, coraggio, sdegno, giustizia, affinché la nostra cara e martoriata Patria fosse riscattata dal nazismo e dal fascismo. Si combatteva per vincere e disarmare i nostri nemici e i nemici della nostra Italia, trascinata in un mare di sangue e di vergogna. Per i fascisti noi eravamo banditi e traditori ma, per il popolo italiano, eravamo combattenti che si stavano riscattando per un’Italia libera, dopo un ventennio di dittatura fascista che l’aveva portata alla rovina. Grazie a noi partigiani e agli operai che lavoravano

nelle fabbriche, che si astenevano sul lavoro riducendo l’attività di costruzione dei carri armati, cannoni, si aspettava la nostra primavera per riprendere l’offensiva per la battaglia finale. Ma bisognava aver pazienza.

La mattina del 10 settembre mi mandò a chiamare il colonnello e mi disse se volevo andare in azione sulla strada fra Molini d’Isola a Beneva Gienna. Di lì doveva passare un carro tedesco che doveva essere guidato da un autista in borghese. Questo era sempre in contatto con il nostro comando e aveva detto che, il giorno 14, doveva passare con un carico di armi a munizioni e, nel punto in cui stavamo noi, io con quattro miei partigiani, l’autista doveva rallentare e noi avremmo preso tutto il carro con tutto il bottino. Quel giorno pioveva, era una pioggia settembrina.  Noi, bagnati fino alle ossa, aspettammo più di tre ore quando, a un tratto, arrivò un carro tedesco coperto con il tendone. Noi, credendo che fosse il carro che aspettavamo, segnalammo con una raffica di mitra di fermarsi. Il carro si fermò. Ma, invece di scendere l’autista che ce lo doveva consegnare, uscirono dodici tedeschi che subito si misero a sparare all’impazzata. Noi, presi di sorpresa, fummo costretti a ripararci in un canale pieno di acqua. II conflitto a fuoco per noi era troppo pericoloso, perché eravamo in cinque e le nostre armi erano leggere. Io avevo uno Stern automatico, uno aveva un mitra e gli altri tre avevano i moschetti. Invece i tedeschi erano in possesso di una mitraglia, uno sputafuoco e di fucili chiamati Tapun, che erano armi micidiali perché le pallottole, quando ti colpivano, scoppiavano nella ferita e ti squarciavano il corpo.

Visto il pericolo che si presentava per noi, mandai un mio partigiano a chiedere rinforzi all’accampamento. Si sparò per più di tre ore. Noi fummo costretti a star in quel canale di acqua che ci arrivava fino al petto: pensate un po’ le nostre ossa come erano inzuppate! I nostri rinforzi arrivano e io diedi ordine di accerchiare il carro tedesco e far fuoco finché non si arrendevano. Ma i tedeschi, decisi, combattevano con coraggio fino alla morte. Dopo una dura battaglia si arresero. Quando ci avvicinammo erano rimasti solo tre vivi ma erano feriti. Io diedi ordine di prendere le armi ai tedeschi morti, ma uno dei miei partigiani mi gridò: «Nino, attento a quello!». Io mi voltai di scatto e vidi un tedesco che mi stava puntando la pistola alle spalle. Quel tedesco, nonostante che aveva una ferita al petto squarciato da una raffica di mitra, voleva uccidermi. Io, visto il pericolo, gli tirai un calcio e gli feci saltare la pistola che aveva puntato. Facemmo salire i tedeschi feriti sul carro e rientrammo nel nostro accampamento. I tedeschi li portammo al campo di concentramento che si trovava nelle alte Langhe, nella zona chiamata Roccaciliè.

Nel mese di ottobre rientravo da una azione con dieci partigiani, quando incontrammo venti contadini piangendo che portavano ai tedeschi le loro mucche requisite. Li fermai e chiesi loro dove portassero quelle mucche. Quei contadini, gridando, mi dissero che erano state requisite dai tedeschi e le andavano a consegnare. Mi feci avere i buoni di requisizione dei tedeschi e gli feci un buono di requisizione nostro, dove si leggeva: «Comitato di Liberazione Piemonte, 12 brigata Bra, Divisione Amendola. Comandante di distaccamento tenente Nino. Requisisco a questi contadini le loro mucche. Firmato tenente Nino». Fu così che quei poveri contadini tornarono con il loro bestiame alle loro case e il giorno dopo andarono a consegnare al comando tedesco il buono che io avevo fatto.

Le loro mucche furono risparmiate.

Io, nel mio accampamento avevo due staffette. Erano due ragazze partigiane: una si chiamava Vittoria e aveva diciotto anni e l’altra si chiamava Gina di 20 anni. Era il mese di luglio e mi arrivarono delle informazioni non precise che doveva esserci un attacco da parte dei fascisti che stavano a Fossano. Per rassicurami, mandai a Fossano la nostra staffetta Gina per vedere di persona quello che stavano preparando i fascisti. Si prese la bicicletta e andò con l’ordine di rientrare la sera o la mattina dopo. Essendo lei di Fossano poteva dormire a casa sua. Ma passarono sei giorni e non tornava ancora. Io ero preoccupato a decisi di mandare Vittoria. Vittoria, l’altra staffetta, vide che Gina passeggiava con un tenente dei fascisti. In quel momento ebbe paura ma si fece coraggio a si avvicinò a loro. Gina, quando la vide, l’abbracciò e le presentò il tenente, dicendo che era il suo fidanzato. Vittoria capì subito che Gina era passata dalla parte dei fascisti e per sapere tutto quello che stava per succedere, disse che anche lei era scappata. Gina disse che aveva fatto bene: con i fascisti si stava più sicuri e ci si poteva divertire. Vittoria riuscì a sapere da Gina che una compagnia di fascisti dovevano venire ad attaccarci di sorpresa e distruggerci. Vittoria, dopo aver sentito quella brutta notizia, non vedeva l’ora di separarsi dalla compagna.

Appena si lasciarono, con la bicicletta rientrò subito da noi dicendoci quello che stava per accadere. Subito informai il comando e chiesi altri rinforzi a preparammo una bella sorpresa. Ci appostammo a forma di cerchio per tutta la notte e, quando la mattina all’alba arrivarono, fummo noi ad attaccare e a fare fuoco per primi. La battaglia fu aspra e durò più di due ore. Ci furono molti morti da parte nostra ma furono di più da parte loro. Gli altri si arresero. Assieme ai prigionieri c’era anche la nostra Gina che aveva guidato i fascisti da noi. I prigionieri fascisti li portammo al campo di concentramento che si trovava a Roccacigliè e la nostra staffetta, che ci aveva tradito, fu fucilata per alto tradimento, a deciderlo fu il tribunale di guerra, costituito dal Comitato di Liberazione.

Un mio partigiano era siciliano. Era della provincia di Palermo. Era sposato, aveva due figli e, quando mi parlava, mi diceva sempre: «Nino, cosa mi dici, sopravviveremo? Avremo la fortuna di andare di nuovo a casa? Vedrò i miei figli e mia moglie?». Mentre pronunziava quelle parole, gli occhi si riempivano di lacrime e alla fine gridava: «Perché succede tutto questo? Che colpa abbiamo noi? Maledetti Mussolini, Hitler a la Repubblica di Salò». Quello fu l’ultimo sfogo che fece con me. Il giorno dopo a Carrù, un piccolo paesino, si teneva il mercato a dalle cascine andavano a vendere polli, conigli, frutta, uova, eccetera. Bruno andò a vedere il mercatino per curiosare e, mentre perdeva tempo seduto davanti ad un piccolo caffè, arrivarono due carri di Brigate Nere che circondarono la piazza e fecero rastrellamenti di giovani. Il mio povero partigiano Bruno, che tanto aspettava per vedere la sua cara famiglia, fu fatto prigioniero assieme agli altri. Lui andava armato e con il fazzoletto al collo da partigiano. Fu condannato a morte. La morte fu brutale: fu portato a Cuneo, lo misero di traverso sui binari della ferrovia e fecero passare la locomotiva sul suo corpo, facendolo in tre pezzi.

Le persone che assistettero a quella barbara morte, quando i fascisti andarono via, raccolsero il corpo pieno di sangue, lo misero in una coperta e lo portarono al cimitero. Quel povero partigiano, che sperava tanto di vedere la sua cara famiglia, non l’ha più vista.

Il mio colonnello mi mandò ad Asti per compiere un’azione segreta. Andai in borghese con documenti falsi e la pistola, mentre cani e autoblindate fasciste facevano rastrellamenti di giovani. La gente, quando vedeva i fascisti fare rastrellamenti, scappava per non essere presa. Io, visto il pericolo, presi la pistola e la buttai in un portone. Fui preso anch’io. Quel giorno ne presero una cinquantina: tutti giovani di 16, 18, 20 anni. Ci portarono in una caserma dove c’erano prigionieri borghesi. La mattina dopo ci fecero mettere in fila e il loro comandante con altri fascisti Ettoremuti, così veniva chiamato quel reparto [portavano la testa della morte sul berretto], ci dicevano di aprire le mani per vedere chi le aveva incallite dal lavoro e chi non le aveva. Quando arrivarono a noi, vedendo le mie mani senza calli, mi disse il loro comandante: «Tu sei bandito». Io gli risposi che ero da una famiglia che mi ospitava e lui mi disse di nuovo che ero un bandito. Così mi rinchiusero. La mattina dopo, all’alba, si sentiva la mitraglia che fucilava quei poveri giovani innocenti. Dopo una settimana di prigionia, rimanemmo in pochi. Il giorno seguente, al cambio di guardia, venne il capo posto che dava il cambio. Ci chiamò e sottovoce ci disse che la mattina dopo ci dovevano fucilare. Pensate un po’ il pianto di quei giovani che gridavano: «Siamo innocenti. Non abbiamo fatto niente. Aiutateci!». Io dissi di stare zitti. Dopo un po’ venne di nuovo il capoposto. Ci chiamò in silenzio a ci disse che era stufo e stanco di tutto quello che stavano facendo quei fascisti, a disse: «Tenetevi pronti, al cambio di guardia vi farò scappare via». E così fu. All’una di notte venne, aprì la porta della nostra prigione e scappammo via, e lui con noi. Non facemmo un’ora di cammino che diedero l’allarme con le sirene a noi correvamo all’impazzata. La mattina, all’alba, stanchi ci riposammo in un campo di grano turco e per sfamarci ci nutrimmo di grano turco. Per una settimana camminammo sempre di notte e il giorno ci si riposava. Arrivammo al fiume chiamato la Stura ci fermammo gridando “siamo salvi” e rivolgendomi agli altri dissi: «Ragazzi, io sono un partigiano, da quella parte c’è il mio accampamento. Chi vuol venire con me deve combattere i fascisti e i tedeschi».

Fu così che il capoposto che ci aveva salvato fu anche lui partigiano Garibaldino. Fu fatto prigioniero e, per non essere fucilato, dovette arruolarsi con i fascisti. Così tre giovani se ne vennero con me a due se ne andarono con lui. I fascisti, quando facevano i rastrellamenti, tutti i giovani che prendevano dovevano aderire alla lotta contro i partigiani e formavano dei reparti chiamati i Cacciatori degli Appennini. Quando venivano a combattere contro di noi, gli davano in dotazione un gancio, come quello dei macellai, con la fune lunga tre o quattro metri. E, quando facevano prigioniero qualche partigiano, lo impiccavano conficcando il gancio nella gola e lo appendevano all’albero. La piccola cittadina Bene Vagienna, che era in zona partigiana, la saccheggiarono due volte e due volte fu incendiata per vendetta.

L’inverno del 1945 fu un duro per noi. La neve ci fu contraria perché non ci potevamo muovere ed eravamo costretti a dividerci per piccoli gruppi di tre o quattro persone. La temperatura era rigida e il freddo penetrava nelle ossa, eppure bisognava resistere e combattere e, noi partigiani in montagna, si aspettava la rossa primavera per la grande offensiva finale decisiva. Il comitato Piemontese, della Lombardia, del Veneto, della Liguria stavano in contatto con noi, con le brigate Garibaldine, con le formazioni di Giustizia a Libertà e con il Corpo Volontari della Libertà.

   Il tempo passava e la primavera era vicina. In tutte le formazioni partigiane si sentiva avvicinare l’ora della riscossa. La sentivamo nella nostra anima e ci sentivamo più forti, più allegri e anche la popolazione sentiva gioia. Era arrivata l’ora del riscatto, l’ora di cacciare via l’invasore tedesco e punire i traditori fascisti, servitori e spie dei tedeschi. Fu così che tutti i comitati di liberazione diedero ordine a tutte le formazioni partigiane di prepararsi e tenersi presenti per l’attacco decisivo per liberare l’Italia dalla schiavitù nazista a fascista. Il 23 aprile tutte le formazioni partigiane scesero dai monti attaccando l’invasore tedesco a gli aguzzini fascisti. Nella città di Torino si combatteva casa per casa. Gli operai delle fabbriche incrociavano le braccia e, con le armi che avevano nascosto, insorsero a fianco dei partigiani. Il popolo gridava: «siamo liberi, è finita la schiavitù nazista e fascista». Fu così che il grande esercito tedesco si arrese a noi partigiani. [A Torino] I rinnegati fascisti si nascondevano nelle fogne per non essere presi, ma dopo, erano costretti a uscire e a essere fatti prigionieri. Ecco perché il partito comunista gridava nelle dimostrazioni: «Fascisti, carogne, uscite dalle fogne». Con la mia formazione facemmo prigionieri un reparto di brigate nere a Beneva Gemma a furono rinchiusi nelle scuole e tutta la popolazione li sputava sul viso, tirava sassi.

Un mio partigiano, che era di Andria mi disse: «Comandante Nino, vieni, ci sono due fascisti. Uno di loro si chiamava come me Cornacchia ed era di Altamura». Andai così nella scuola e i due prigionieri si presentarono e piangendo mi chiesero di farli salvare. Io chiesi da quanto tempo erano nei repubblichini fascisti e loro mi risposero: «Da dieci mesi». Io risposi: «E voi in dieci mesi non avete avuto l’opportunità di scappare? V’è piaciuta la vita comoda e ben pagata mentre gli italiani soffrivano, ve ne siete fregati».

   Loro mi supplicarono, chiedendomi che fossero risparmiati alla fucilazione. Mi recai dal mio colonnello, il quale mi disse che per il momento dovevano andare nel campo di concentramento e poi avrebbero deciso i Comitati di Liberazione. Dissi ai due prigionieri come stavano le cose. Il 10 luglio del ‘45 potetti venire a casa. Allora gli autotreni incominciarono a viaggiare dal sud al nord e chiesi un passaggio ad un camionista che andava a caricare il vino a Lecce. Così salii a cassone sulle botti di vino e scesi a Bari. Da Bari venni a casa in treno. Il cuore del partigiano era troppo buono. Io, appena arrivai ad Altamura, mi recai alle case dei due prigionieri, chiesi le loro fotografie per essere sicuro che fossero loro.  Dissi ai famigliari che erano vivi, ma erano prigionieri perché avevano combattuto con i fascisti e se avevano qualche conoscenza forte per poterli salvare. Io dissi che dovevo ritornare nella mia formazione per sistemare la mia posizione di partigiano e avrei visto di convincere il mio colonnello. Poi dissi: «Se voi andate dal Conte Pasquale Sabini, che era un monarchico, una parola il Conte e un convincimento da parte mia e potevano essere salvati». Appena tornai al mio reparto, mi recai dal colonnello pregandolo di nuovo di risparmiare la loro vita.

Il mio colonnello mi assicurò che avrebbe salvato loro la vita. Quando tornarono a casa, solo uno di loro venne a ringraziarmi: quello col cognome Cornacchia. L’altro l’ho incontrato parecchie volte e mi ha sempre guardato con indifferenza e questo era soprannominato Piscianterra o si chiamava Sciananteno. Questa è la riconoscenza che ho avuto da quel fascista.

Tutto questo è il mio diario della lotta Partigiana.

Biografia di Michele Cornacchia

Nasce ad Altamura I’11 Settembre 1919 da Nicola, coltivatore e impegnato nel partito di Pasquale Caso, e da Vittoria Melodia. Frequenta la scuola elementare IV Novembre. Il 20 marzo 1940 parte per la leva, destinazione Torino I° Genio. Dopo il giuramento parte per il fronte francese come soldato semplice e in seguito per quello jugoslavo. Nel 1942 è in Sicilia. Il 10 Settembre è impegnato in prima linea nella lotta partigiana come comandante di distaccamento del 12° brigata Bra, divisione Amendola, nome di battaglia Nino, nel cuneese. Dopo la guerra è attivista del P.C.I, membro del direttivo stampa e propaganda. Nel 1949 viene arrestato per affissione di manifesti e per l’occupazione delle terre in contrada S. Giovanni. Dopo la scissione del P.C.I. ha aderito a Rifondazione Comunista.

Nota di trascrizione

II testo è scritto in maniera abbastanza chiara e praticamente non comporta difficoltà di lettura. Ci sono alcuni problemi per quanto riguarda l'interpunzione, l'ortografia e alcune ripetizioni. Ho fatto qualche intervento in deroga alla totale fedeltà di riproduzione dell'originale, che ho scelto come criterio. Per il resto ho riprodotto inflessibilmente il testo.