Fiore di Liberazione

 di Giuseppe Dambrosio

confinofiore

 La festa della Liberazione, nonostante i tentativi di revisione storica in atto tendenti ad offuscare la memoria resistenziale e a ridurla ad una scadenza di pacificazione nazionale nella quale, in modo indistinto, si piangono i morti dell'una e dell'altra parte, è un momento importante della storia del nostro paese. Mi è sembrato opportuno ricordare il significato non in modo oleografico e agiografico, ma ripescando  la testimonianza di un nostro concittadino, Tommaso Fiore, poco conosciuto ai più giovani, che pagò con il carcere la propria opposizione al regime fascista e con estrema lucidità analizzò quel periodo, con l'occhio sempre rivolto alla sua regione e alla sua città.

 Tommaso Fiore ebbe un ruolo importante nella lotta contro il fascismo nell'Italia Meridionale. Studioso attivamente impegnato nella vita politica e sociale, rappresentò le ansie e le aspettative dei contadini e dei combattenti. Nel 1920 si batté contro l'onorevole Caso e divenne sindaco, capeggiando una giunta che durò dal 1920 al 1922 e attuò misure che si ispiravano al socialismo e al “buon governo”, mettendo al primo posto il problema dell'occupazione incentivando il sistema cooperativistico, rompendo così il vecchio sistema clientelare e corporativo delle precedenti amministrazioni, che favorivano le classi sociali più abbienti. E a questo periodo che Fiore assegna un ruolo importante per quanto succederà in seguito con l'opposizione al fascismo: “Il termine resistenza si sa, comunemente vuol dire la guerra delle formazioni partigiane, tra il 1943 e il '45 contro tedeschi e fascisti. Ma la difesa con le armi in pugno è stata precedentemente preparata dal moto culturale del primo dopoguerra, fra il 1919 e il 1926, che fu di libertà e democrazia, e tradusse allora la prima volta in pensieri e propositi le aspirazioni popolari, del Mezzogiorno particolarmente [… ] il moto del combattentismo (i reduci della prima guerra mondiale), fra il 1919 e il '21 non espresse se non di rado una coscienza critica ben precisa, formò un primo argine contro il fascismo, allora generalmente ripugnante. Quel “cameratismo” della trincea pareva ancora un corpo vitale, per la ricchezza dei sogni di rinnovamento, ma c'era troppa ingenuità, quasi un barlume di politica. Dopo tante sofferenze il cafone di Puglia, come pure quello del Molise e della Sardegna, riusciva a formular la speranza a vivere civilmente.

 Con l'avvento del fascismo il professore, leader degli ex combattenti, si sposta a Bari dove continuerà a condurre incessantemente la sua battaglia di antifascista, senza mai perdere di vista la sua terra d'origine e il suo affascinante ambiente naturale e la sua tradizione storica: “il fascismo arrivava da noi come una gradine inviata dall'alto, più grave e insistente di altre, denunciate dal Fortunato che il Mezzogiorno da secoli subiva, per opera della natura e degli uomini. Di nuovo c'era che la prima Resistenza non era soltanto borghese, ma già operaia e contadina. Era difficile fermarsi per strada tanto da cogliere qua e là la voce degli eterni vinti, che parea sorgessero, si confondessero col suolo e con la vita primordiale delle rade masserie, secondo l'abitudine, salvo che quel silenzio, sulle tracce, sulle facce, suonava ormai rampogna e rampogna e protesta. Non c'era tempo di fermarsi a  a contemplar il cardo blu colle sue spine lungo le strade, contro la vampa del sole, e gli asfodeli densi ed innumerevoli, suscitavano ancora pensieri di morte per il pietrame della Murgia. Ma tempo per sognare non ce n'era la gola era stretta dagli spettacoli della miseria”.

 L'antifascismo in Puglia  e, in particolare a Bari e provincia, era prevalentemente intellettuale, non risultano movimenti clandestini operanti, ed ebbe come fulcro di resistenza sotterranea  la casa Laterza attorno a cui si strinsero gli intellettuali messi al margine dal regime. Ed il clima è così illustrato dal Fiore: “Ma in Puglia la realtà è stata questa, che tutti eravamo di finir male, chi sa come, da un momento all'altro, in un tumulto artefatto, sotto la carezza di un pugnale, o con la pallottola d'ignota provenienza, oppure, rincasando tardi di notte, sotto una pioggia di sassi, da parte di qualche capraio, infallibile tiratore”.

 Grande attenzione fu data dal Fiore all'analisi del blocco sociale che appoggiava il regime, illuminanti sono queste considerazioni, ancora dense di significato per i nostri tempi: “Per venir ora al fascismo in Puglia, quale si è svolto sotto i nostri occhi, non bisogna dimenticare anzitutto che mai sono stati fascisti gli agrari de sud; borbonici sì, retrogradi sempre, nemici dell'alfabeto e di ogni forma di associazione che non sia per andare a caccia o giocar a carte, sin dal tempo dei tempi; insomma a giudizio di tutti i democratici di Europa, una classe dirigente fra le peggiori. Ufficialmente la loro immissione nel partito fu trattata solo dopo il 1925. Il fascismo era arrivato quaggiù dopo il “marcio”, con una macabra esposizione di teschi. Però del fascismo si può dire come quel tale che il ben lo fece male, il mal lo fece bene! Quel fascismo era una gabbia, dove s'eran cacciati uomini d'ogni sorta, anche democratici, una gabbia di matti, e non era possibile orientarsi una volta dentro [...] E' certo che in quel tempo per le masserie della Murgia, poterono i proprietari liberarsi finalmente dall'incubo dei contadini nella maniera più semplice, sparando da dietro i muri di cinta contro ogni ombra che passasse. Tutto avveniva in quattro e quattr'otto, si aveva fretta. E non si guardava pel sottile”.

 Tommaso Fiore fu tratto in arresto il 7aprile 1942, accusato di aver svolto attività disfattista contro il regime e fu inviato al confino a Ventotene, Quadri  e liberato il 20 novembre dello stesso anno in occasione del ventennale del fascismo, rientrando nei provvedimenti di clemenza. Mi piace chiudere con una considerazione finale: "In sostanza ho il dovere di affermarlo, nella scuola io facevo scuola e non politica, perché di scuola c'era bisogno di politica no. Bisognava fare soprattutto storia, sempre storia in tutte le congiunture e a sostegno di tutte le materie, specie letterature classiche; mantenersi insomma sul terreno storico. Solo così ci si poteva riattaccare con molta storia e anche filosofia per base, al mondo moderno, e bisognava farlo  in ogni modo. Se insegnare significa far sorgere nell'animo di chi ascolta bisogno di sapere e di farsi uomo, uomo libero, ogni altro problema è risolto da sé la scuola, anche oggi, non ha altri problemi".* 

* Le citazioni sono tratte da “Formiconi di Puglia”, Lacaita edizioni, 1963.