La libertà salvata dai ragazzini caduti in via Niccolò dell'Arca

di Paolo Comentale

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Mercoledì 28 luglio 1943 è una giornata calda e soleggiata. Santi del giorno sono due giovani martiri Naziario e Celso, il loro simbolo è una palma. E una palma dovevano sventolare insegno di pace e di giubilo anche i giovanissimi manifestanti che, issando ritratti del re Vittorio Emanuele III del Capo del Governo in carica da meno cli tre giorni, Pietro Badoglio, la mattina del 28 luglio si dirigevano dal centro di Bari verso il carcere in via Crispi per ricevere notizie e forse addirittura liberare i detenuti politici ancora rinchiusi. Il fasci­smo con il suo carico di crimini, lutti e de­ vastazioni era caduto da pochi giorni e si sperava in una nuova era di libertà e, specialmente, di pace.

La guerra, una guerra inutile e sangui­nosa come tutte le guerre, aveva lasciato tracce evidenti in città. Borsa nera, bombardamenti, povertà, fame, ignoranza, malattie. La scabbia era diffusissima specialmente tra i bambini. Vigeva una dimensio­ne amara che il fascismo aveva portato all'esasperazione: non contraddire mai l'autorità costituita, Il duce ha sempre ragione, vivere perennemente in un regime di so­spetto: «taci il nemico ti ascolta». E così via il paese ostentava cicatrici profonde, morali e materiali.

Quindi quella mattina d'estate di settantaquattro anni fa il moto di giubilo auten­tico sincero spontaneo della parte viva della città era pienamente giustificato. Un moto di giubilo stroncato ln modo violentissimo. È per noi difficile, anche a distanza di tanti anni dall'avvenimento, non provare un sentimento di commozione al pensiero di quel· la piccola, ingenua e disarmata truppa di giovani e giovanissimi patrioti capeggiata da professori lungimiranti. La concatenazione degli eventi è fin troppo nota, il drap­pello di giovani manifestanti percorre Cor­so Vittorio Veneto, l'attuale via Sparano, ma all'altezza del cinema Umberto presso via Niccolò dell'Arca, in prossimità delle se­de della federazione del partito fascista, si ferma e chiede a gran voce che si tolgano le insegne della dittatura.

Sembra una semplice richiesta perfetta­mente legittima ma ben presto la tragedia precipita. Invia Niccolò dell'Arca è schie­rato un drappello di 24 soldati del IX reggimento Autieri al comando del sottotenente Mario Palumbo per proteggere la sede della federazione del partito fascista. All'improvviso la tensione sale al culmine, si ode sparare la contraerea, il professor Canfora alla testa del corteo tenta una generosa mediazione con il comandante del plotone...sembra possibile trattare. All’improvviso gli spari.

Sparano tutti come forsennati: sicuramente i soldati del plotone su ordine del sottufficiale, forse i fascisti asserragliati nella federazione, certamente il sergente Domenico Carbonara del Battaglione San Marco, un provocatore che si era infiltrato nel gruppo dei manifestanti. È una strage. La prima dell'Italia uscita dalla dittatura, una strage troppo a lungo dimenticata, una strage anche di ragazzi a differenza della strage degli operai di Reggio Emilia avve­nuta lo stesso giorno con modalità analoghe e con nove vittime tra cui una donna in cinta.

Su almeno venti vittime dichiarate in via Niccolò dell'Arca circa la metà sono minorenni. Il fiore di quella generazione che aveva visto l'eclissi della dittatura ed era sceso in piazza pacificamente a manifestare fucilato senza pietà, colpito alla schiena nell'atto della fuga, straziato dal colpo di grazia alla tempia. Una atroce crudeltà rivolta a dei ragazzi inermi. Perché? L'effetto è sconvolgente, i testimoni parlano di un bagno di sangue, di una fuga precipitosa, di una serrata dei pochi negozi aperti che per paura chiudono subito le saracinesche. I pochi so­pravvissuti ancora feriti vengono arrestati e piantonati in ospedale come pericolosi delinquenti.

Quanta paura aveva ancora la dittatura delle persone libere! Insomma una pagina amarissima della storia cittadina sulla qua­le si è steso da subito un velo di ipocrite falsità. E’stato anche grazie al tenace interessamento dei parenti delle vittime e de· gli approfonditi studi storici di Vito Anto­nio Leuzzi che finalmente si è squarciato il velo di censura per illuminare questo lato scuro della vita civile di Bari. Una città che forse, nell'avvicendarsi delle sue classi dirigenti ha voluto dimenticare troppo presto gli orrori del fascismo. Si è pensato per trop­po tempo, colpevolmente, che il fascismo fosse una semplice parentesi e che la catastrofe del 28 luglio fosse colpa dei singoli.

In realtà il 28 luglio a Bari è un sistema marcio che crolla devastando una comunità e colpendo i suoi figli migliori. Che sindaco straordinario sarebbe diventato Graziano Fiore se solo gli avessero consentito di vivere. Le sue ultime parole restano a monito per tutti: «Sparereste su degli italiani come voi?». Ebbene sì, purtroppo spararono perché esistevano e esistono ancora Italiani e italiani. Di quegli anni amari resta una bellissima foto. La tempesta è passata e l'Italia, per volontà degli ltaliani, è una repubblica, la lunga notte del fascismo è alle spalle. La foto·inapertura della pagìna qui a sinistra riprende su via Sparano quattro giovani che marciano abbracciati verso il futuro. Sembrano soldatini in congedo, sono armati solo di un sorriso sfolgorante.

Alcuni come Paolo Laterza sono stati testimoni dell'eccidio, altri lo hanno sentito raccontare. Certo è che tutti sono protesi all'avvenire. Il futuro sembra radioso e ricco di promesse. È una foto che dovremmo vedere tutti, una immagine che è insieme speranza e impegno. Un'ultima cosa, i ragazzi della foto sono tutti vivi e vegeti e sono da sinistra a destra: Peppino Sacco, Lorenzo Quaranta, Paolo Laterza, Tonino D'Addario.

 La Gazzetta del Mezzogiorno 25 luglio 2017