A 115 anni dalla nascita di Corrado Alvaro

di Matteo Collura

Corrado Alvaro

L'anniversario

Di Corrado Alvaro (1895 1956) mi ha sempre impressionato l'aspetto fisico, il suo volto. Per questo, nel ricordarlo a centoventicinque anni dalla nascita, ripropongo il ritratto che ne fece il critico letterario Pietro Pancrazi, una descrizione che dice molto sull'autore di Gente in Aspromonte: «Qualche settimana fa ho inteso Corrado Alvaro parlare in pubblico in una illustre sala fiorentina, che è sempre per uno scrittore non Toscano una bella prova. Parlava della sua Calabria, e calabrese restò. Con quella sua faccia che sembra un pugno chiuso visto di profilo, si pose di fronte alla sala e per un'ora disse il fatto suo cosa su cosa e quasi con un senso di necessità».

Un senso di necessità: sì, quella dello scrittore meridionale che ovunque vada, qualunque livello nella propria carriera raggiunga, considera la letteratura una efficace forma di riscatto. Seguiamo ancora Pancrazi: «Ci aveva messo le mani e sembrava intridere una farina, impastare un pane. Sparpagliava lontano le sue impressioni, i ricordi, i proverbi, le figure della sua terra, li lasciava andare; e poi a un tratto, con un accenno della mano tozza, li raccoglieva, li ribadiva a sé. Riapriva, poi, la mano di taglio, a mezz'aria, e gli ridava la via. Diceva e tornava a dire Il pubblico intese. Nell'oratore che voleva ma non riusciva a staccarsi dal tema, avvertì qualcosa di insolito, una verità, una poesia. Scoppiarono, alla fine, a due tre riprese, quegli applausi fitti, secchi, che si fanno a gola stretta».

Testimonianza

Dobbiamo questo magnifico ritratto, questa toccante e perspicace testimonianza, a Geno Pampaloni, il quale opportunamente l'ha inserita nel suo saggio che introduce il primo dei due volumi delle opere complete di Corrado Alvaro, pubblicate da Bompiani tra il 1990 e il 1994. Doveva essere proprio così, Corrado Alvaro, un uomo dall'aspetto antico, che tanto ha visto con gli occhi stupiti e vigili del meridionale che scopre il mondo. Viaggiò molto, imparò lingue diverse dalla sua, e tuttavia rimase l'innocente fanciullo nato contadino in una terra di stenti. Per questo, alla fine del suo personale giornale, che va dal 1927 al 1947, annotò: «La favola della vita m'interessa ormai più della vita».

Ora si può leggere come una favola, la vita di Alvaro. Ma a lui toccò di subire due guerre mondiali, nella prima, soldato, rimasto ferito a San Michele del Carso. Per un uomo che vuol essere scrittore, vale a dire testimone del suo tempo, non ci può essere di meglio che assistere a due macelli che mettono a ferro e a fuoco l'intero pianeta. Annota Alvaro in apertura del suo diario, Quasi una vita: «La mia non è una biografia esemplare; come tutti i miei contemporanei, ho cercato di trarre a salvamento fisico e morale la mia esistenza attraverso un'epoca che tutti conosciamo. E di tale epoca questo libro nella parte che vi occupa la testimonianza, dovrebbe servire a ricordare qualche aspetto, forse a rivelare qualche particolare che non fu notato, qualche episodio che illumini le forze, l'ambiente, i sentimenti, che hanno dominato la vita della nostra generazione».

Qualche aspetto, qualche particolare: Alvaro fu maestro nel notarli, nel darne notizia, nel farne racconto. Trascorsi tanti anni, è importante raccogliere una così alta e sofferta testimonianza. Ancora dal suo diario: «Non ho la stoffa del martire, a meno che non vi sia costretto. Ho cercato di sopravvivere per i miei doveri sociali e verso me stesso, pensando che un giorno avrei potuto dire una parola utile, se non necessaria, secondo l'eterna illusione che assiste uno scrittore. Così ho sempre cercato di evitare la prigione o di farmi uccidere, le occasioni più facili, mi pare, che il nostro tempo offra agli uomini di cultura».

La generazione

Ed ecco l'amara conclusione: «La mia generazione entrò nella vita con l'idea di appartenere a una civilmente grande nazione, e l'ha veduta deperire. Con tutte le buone intenzioni, non lascia una buona eredità». È vasta la produzione letteraria di Alvaro. Essa va dall'elzeviro al romanzo, dal diario alle corrispondenze di viaggio, dalle traduzioni ai racconti, genere, questo, in cui raggiunse vette d'eccellenza. Notevole la prefazione alle Novelle per un anno di Luigi Pirandello, del quale Alvaro fu amico. In pieno regime fascista scrisse un romanzo che incappò nella censura. L'uomo è forte, il titolo, diverso da quello che lui avrebbe voluto: Paura sul mondo. I censori (si era nel 1938) avevano preteso che lo scrittore eliminasse una ventina di pagine dal suo libro. Lui rifiutò e si giunse a un compromesso: sarebbero state tagliate una ventina di righe e, in un'avvertenza, l'autore avrebbe specificato che la storia narrata si svolgeva in Russia.

A guerra non ancora finita, Alvaro pubblicò un pamphlet politico che si legge come una profezia. Da L'Italia rinuncia: «I risultati della politica italiana in settant'anni di vita unitaria sono, nel 1944, pervenuti a questo: che non solamente l'Italia è cancellata dal novero delle grandi e libere nazioni, presumibilmente per molti anni, ma sta rischiando la sua stessa unità nazionale». Questo per dire che, dopo lo sciagurato ventennio, l'Italia avrebbe dovuto avere la forza di risollevarsi da sé, non aspettare che la salvezza arrivasse dall'esterno. L'Italia, scrisse Alvaro in quel piccolo libro, non doveva rinunciare a essere una vera nazione, il Sud il suo Sud a dare l'esempio.

Il Messaggero 15 aprile 2020