Vecchi e nuovi meridionalismi

di Alessandeo Leogrande

Alessandro Leogrande

Oggi è molto difficile provare a immaginare la Taranto degli anni Cinquanta, afferrare il suo spirito, i suoi lineamenti. È difficile farlo per chi allora non c’era, per chi guarda a quel passato dai bordi di una città profondamente mutata. Eppure – se c’è un tratto che emerge nei resoconti dell’epoca – è quello del mesto crollo di un tessuto urbano edificato intorno all’apparato naval-militare nei sei decenni precedenti. Quella città, nel bene e nel male, era ormai al capolinea.

Nel 1960, quando si inizia a costruire l’Italsider, tutte le altre fonti occupazionali del territorio erano ormai in crisi profonda. Se nel 1947 l’Arsenale militare aveva ancora 13 mila dipendenti, nel 1960 ne aveva appena 6 mila. Quanto ai gloriosi cantieri navali Tosi, la riduzione – tra il ’47 e il ’60 – era stata oltremodo feroce: da 6 mila a 1.200 unità.
Cinque anni prima, nel 1955, Tommaso Fiore aveva concluso la sua celebre inchiesta Il cafone all’inferno con un reportage intitolato Taranto non vuole morire. La Taranto da lui descritta era una città che soffriva la fame e la disoccupazione, l’atavica inerzia di una borghesia micragnosa, l’assenza di un progetto di rinascita dopo la crisi dei suoi storici apparati produttivi. 

Quando lo stabilimento venne costruito, parve poter alleviare buona parte di quei mali, le ansie di una comunità che la fabbrica l’aveva voluta fortemente anche per emanciparsi dal fallimento delle politiche per il Mezzogiorno: un dato questo – antropologico, sociologico, culturale – che oggi si tende a dimenticare con troppa facilità, come se l’Italsider fosse stato imposto dall’alto, controvoglia, con il solo consenso di forze politiche corrotte e coloniali… Questa ricostruzione (purtroppo maggioritaria) fa torto alla storia del paese, alle sue politiche di industrializzazione (almeno all’inizio, non del tutto negative), a un briciolo di riformismo politico (che pure c’è stato) e alla storia dei metalmeccanici ionici e meridionali.

Oggi, a maggior ragione – cinquantatré anni dopo l’avvio dei lavori di costruzione, e diciotto anni dopo la privatizzazione degli impianti – un reportage da Taranto potrebbe intitolarsi Taranto non vuole morire. Ma questo grido non è esploso all’improvviso: piuttosto si è accumulato nel tempo, in anni di acquiescenza e di mancate risposte.

Dove era la politica mentre si compiva il disastro? Molti tendono a gettare la responsabilità su “tutta” la politica, su “tutti” i sindacati. Ma nella notte in cui tutte le vacche sono nere, le responsabilità individuali si perdono. Invece chi ha a cuore la verità storica dovrebbe ricordare che a Taranto per oltre un decennio ha governato la destra peggiore dell’intero Mezzogiorno: il neofascismo televisivo e forcaiolo di stampo citiano, prima; la giunta di centrodestra (Pdl e Udc) che ha prodotto il più grave buco di bilancio nella storia degli enti locali, dopo. Entrambe le destre non hanno alzato un solo dito mentre Riva assumeva il controllo della fabbrica e faceva  il bello e cattivo tempo. Al contrario, benché osteggiata dal governo Berlusconi, la Regione Puglia guidata da Vendola è riuscita a far approvare un’importante legge anti-diossina.

A soffrire l’inquinamento in questi anni, prima ancora degli incolpevoli cittadini, sono stati gli stessi lavoratori. Il devastante impatto ambientale percepibile all’esterno del perimetro della fabbrica, e da ultimo rilevato nelle perizie epidemiologiche, è stato in un certo senso la manifestazione esterna della feroce regressione nelle relazioni di lavoro interne allo stabilimento.
Spesso non si coglie il filo doppio che lega la sicurezza interna a quella esterna, e che lo slogan “la salute non si contratta” dovrebbe riguardare entrambi, chi sta dentro e chi sta fuori.

È del tutto evidente che l’unica soluzione che tenga insieme occupazione e salute passi attraverso ingenti investimenti del Gruppo Riva sulla trasformazione degli impianti. Qualora non lo volesse, l’azienda deve essere costretta a farlo. E qualora non potesse, bisognerebbe vagliare la possibilità di una gestione straordinaria. Dico questo, ancora una volta, perché, in una fase di recessione acuta e di tagli alla spesa, è difficile pensare nell’immediato ad altre attività economiche che tirino fuori la città dalla crisi. Ed è allo stesso tempo velleitario ritenere che l’unica soluzione sia quella di chiudere la fabbrica, far ricadere i costi della bonifica sulla collettività (dopo il fallimento di Bagnoli) e vagheggiare – come alcuni hanno fatto – una imprecisata panacea turistica. Chi bonificherebbe quell’enorme area dismessa una volta che la fabbrica viene chiusa e lo stabilimento abbandonato a se stesso?
Vista la particolare natura del ciclo integrale dell’acciaio, inoltre, la risposta non può essere neanche quella (paventata da alcuni settori dell’ambientalismo tarantino) di chiudere la sola area a caldo incriminata. Chi vuole chiudere l’area a caldo a Taranto per far fare “il lavoro sporco” in Cina o in India, in paesi in cui la vita dei lavoratori vale poco e niente, e l’assenza di una adeguata legislazione ambientale ha prodotto ecocidi ancora peggiori di quello di Taranto, si rende effettivamente conto di quel che dice?

Da tempo – ahimè – credo che l’ecologismo classico sia morto e che sia stato in buona parte sostituito da un ambientalismo da sindrome “nimby”, localistico, autoreferenziale, incapace di riflettere sul nesso tra questioni ambientali, questioni sociali e ricadute globali, e quindi in buona parte reazionario: una sorta di grillismo senza Grillo, che del magma grillino riprende non poche pulsioni forcaiole e giustizialiste. Il caso ”“Ilva ne è purtroppo la riprova: al di là di un ristrettissimo gruppo di ambientalisti storici, si è costituita una composita area che si dice ambientalista ma che in realtà è molto lontana dagli assunti di base dell’ecologia politica…

La fabbrica va cambiata qui, dall’interno, grazie a normative europee, nazionali e regionali da integrare con le indicazioni della procura, e – si spera – grazie a un nuovo protagonismo operaio e sindacale che controlli tutti i passaggi. Tali misure vanno fatte applicare seriamente a una azienda che finora non le ha applicate, nel rispetto innanzitutto della salute dei lavoratori e dei cittadini. La risposta non sta nello spazzare la polvere sotto il tappeto cinese, né nel rinunciare all’acciaio (partendo dal presupposto che la fabbrica sia immodificabile: assunto, ripeto, su cui paradossalmente convergono sia l’industrialismo più esasperato che un certo ambientalismo fondamentalista).

Questa è l’unica soluzione ragionevole, universalista e – lo dico senza enfasi – all’altezza della tradizione delle migliori esperienze del movimento operaio: la fabbrica si può cambiare, nonostante le pesanti eredità. Si può produrre acciaio in un altro modo, così come fanno in altre parti del mondo. Anzi, è auspicabile che proprio la sua trasformazione sia di stimolo per quel superamento della monocultura siderurgica che oggi appare difficilissimo.

Nel deserto sociale e industriale del Sud Italia che emerge dall’ultimo Rapporto Svimez pochi hanno notato che una delle città chiave su cui si fonda l’analisi è proprio Taranto, in particolare nel capitolo Le sfide del Mezzogiorno: industria, città, ambiente. Nel quadro di decomposizione sociale ed economica del nostro Sud – tasso di disoccupazione effettivo del 25,6%, contrazione del Pil del 6,1% tra il 2007 e il 2011, riduzione dell’occupazione dell’11% nello stesso periodo – risolvere il nodo salute-lavoro non è solo difficile di per sé. Diventa oltremodo complicato se alle sue spalle ci sono un tessuto sociale disgregato, la paura della miseria e dell’inedia, l’assenza di alternative occupazionali reali, di una concreta politica industriale per il Mezzogiorno e per l’intero paese, di una programmazione regionale forte e, soprattutto, di una riflessione chiara su come trasformare le città in autonomi motori di sviluppo.

Taranto è sempre più specchio del Mezzogiorno in crisi. Non si tratta solo di risolvere l’intricata questione ambientale, legata alla vicenda dell’Ilva. Ogni soluzione ipotizzata va messa al centro di una riflessione più vasta: come evitare che il gorgo asfissiante di nonlavoro, desertificazione produttiva, lontananza dal Centro-Nord, nuove emigrazioni porti giù tutto? O il piano di interventi volti all’ambientalizzazione viene vincolato a un nuovo Patto per la città, base di un più generale Patto per il Mezzogiorno e per la coesione territoriale (in altre parole: a una nuova stagione di ideazione politica) o la città resterà passiva di fronte al ping pong (e agli eventuali bluff) tra magistratura, azienda, ministeri.
Quando la tensione sale, il rischio è che l’unica alternativa alla passività sia la jacquerie, la guerra di tutti contro tutti. Per questo oggi bisogna cambiare passo. La fine dell’industrialismo di Stato (sancita dalla privatizzazione del colosso dell’Italsider) non ha coinciso solo con l’agonia delle partecipazioni statali e con l’implosione della Prima repubblica. Ha coinciso anche con la fine del meridionalismo novecentesco. A lungo si è pensato che questa non fosse una grave perdita. Invece lo è stata. Oggi, a vent’anni di distanza, in pieno ventunesimo secolo, abbiamo bisogno di un nuovo meridionalismo. Non dei “professionisti del meridionalismo”, che in passato si sono fatti mediatori tra centro e periferia, corrompendo inevitabilmente sia l’uno che l’altra, bensì di un nuovo meridionalismo critico.”

“Per il socialista (ed ex azionista) Manlio Rossi-Doria la crisi della democrazia italiana, il persistere della “questione meridionale” e la crisi del meridionalismo erano figli della stessa radice. In una lettera all’amico Vittore Fiore della fine degli anni Settanta, Rossi-Doria scriveva: “Siamo cascati nella trappola della politica meridionale post-1957, fatta di falsa industrializzazione, di rifiuto di una moderna politica agraria, e di una degenerazione parassitaria della parte originaria della politica della Cassa, ossia della politica, inizialmente valida, delle ‘opere pubbliche straordinarie’. Abbiamo, infatti, tutti accettato e sostenuto (come oggi fanno i comunisti) la politica della collaborazione con gli amici del giaguaro, ossia la Dc. Siamo, quindi, tutti – io e te compresi – colpevoli della degenerazione della politica meridionalista – corresponsabili del progressivo spegnimento di ogni ‘spinta meridionale’ per il rinnovamento del Mezzogiorno”.

La “spinta meridionale” di cui parlava Rossi-Doria è riassumibile in poche, semplici parole. Salvemini, Gramsci, Dorso, Sturzo (i rappresentanti, potremmo dire, delle quattro maggiori correnti del meridionalismo) convergevano su un punto essenziale: non ci può essere trasformazione d’Italia senza la trasformazione del Sud. Pertanto – ancora una volta – occorre cambiare il Sud per rivoluzionare l’Italia: combattere le camorre, la fame, l’ingiustizia, sbloccare una società bloccata, creare nuove classi dirigenti. Questo è il punto. Oggi appare un programma titanico, utopico, a tratti irrealizzabile. È difficile orientare le forze verso un progetto del genere, e questo è uno dei motivi per cui si assiste all’affermazione di pulsioni neo-borboniche, del tutto speculari al leghismo, che spostano l’origine del male sempre al di fuori, e mai all’interno del proprio perimetro sociale e politico, alimentando l’assuefazione al peggio, l’assenza di autocritica, un inutile e querulo vittimismo.

Taranto, però, non riflette solo la crisi del Mezzogiorno. Nel cuore del ventunesimo secolo, è anche lo specchio della crisi europea. Elaborare un nuovo nesso tra ambiente e città, interpretare la nuova questione operaia, disegnare un nuovo piano del lavoro, ridurre le disuguaglianze sociali, ridimensionare il deficit di democrazia, parlare di ecologia su scala globale sono tutte facce dello stesso problema. Città per città, esso andrebbe affrontato per evitare di ritrovarci in un continente che si spegne lentamente.”

da "Fumo sulla città", Fandango edizioni