La strage del 28 luglio 1943

a cura di Giuseppe Dambrosio

img20230727 16420125 min

Graziano Fiore nel 1942 in via Vittorio Veneto (attuale via Sparano),  Archivio famiglia Fiore

82 anni fa il 28 luglio 1943 a Bari, in via Nicolò dell’Arca, durante un corteo pacifico che chiedeva la liberazione dei prigionieri politici dopo la caduta del regime fascista, furono uccisi  20 persone  e altre 50 rimasero gravemente ferite, la maggior parte erano studenti ma non mancavano professori, professionisti e cittadini comuni che avevano osteggiato il regime fascista. Una vera e propria strage! Nel ricordare quell'eccidio,  si popongono qui il “Testamento” di Graziano Fiore (ucciso in quell’occasione), figlio di Tommaso, datato 1942 e una toccante “testimonianza" di un ferito che si firma (s.m). I testi trascritti rinvengono da un foglio stampato il 28 luglio 1944, ad un anno dal massacro, promosso da diverse testate:  "Il Risveglio" (Settimanale della Democrazia Cristiana),  "L ’Avanti!" (giornale del partito socialista italiano),  "La Libertà" (organo del partito Liberale), "Civiltà Proletaria" (Settimanale del partito comunista) , "Italia del Popolo" ( Settimanale del Partito d’Azione - Bari).

IL TESTAMENTO DI GRAZIANO

L’ora della riscossa è prossima. L’aria di lontano porta un suono di guerra. Combatteremo, e sarà la fine di questi giorni amari, e la fine di chi ce li procurò.

Giustizia e libertà pei popoli è la santa parola che si è dovuta tacere fin troppo. Fin ora siamo stati costretti a lanciarla solo nei cuori di quei pochi giovani, di cui ci si poteva fidare.

La nostra è la lotta alla ricerca del giovane, che l’accetti, che ne discuta con le la grandezza e la giustezza.

Ed è una lotta in silenzio, lontano dagli agglomerati di spie, che spesso con gran maestria s’infiltrano. Piccoli uomini, cercando di accalappiarci come cani rognosi e gettarci in luride carceri.

Quante gioie e dolori, quante vittorie e sconfitte, ci costano questi anni amari!

Ma è l'ora che apporterà vita e benessere, l’ora di nuovi rifacimenti è giunta. Il nostro sangue non deve essere men degno di quello dei nostri antichi padri.

Riconquistata la libertà, che non sfoci in licenza col lavoro, col dovere che ci lega ai nostri antichi, si risolleverà tutto ciò che è stato menomato, in questa Italia, fonte di perenne cultura e di arte nel campo liberale, dal mal nome o dalle nefande azioni dei nostri degenerati fratelli.

La sorte ha voluto  che uno di essi, più nefando degli altri, si ponesse a capo dei nostri fratelli  ciechi. Ciechi, perché più che ciechi non si debbono chiamare. E come un cieco può pestare un'immagine sacra, un fiore, una bellezza naturale, cosi anch'essi, guidati da un nefandissimo veggente, qual è il loro capo supremo, hanno pestato, ridotto in cenci, quello ch'era il nostro ridente paese.

Dopo tanti danni ora cominciano a comprendere, e piano piano, acciò che non siano silurati, s'allontanano dall'astuto e grande megalomane conduttore. E come se qualcosa di grande e di non umano ridonasse loro la vista, cominciano a muovere i primi passi, tardi, dopo più di vent'anni di lunga cecità e di profondo letargo.

In tutti oggi si rivela la scontentezza, l’uggia, ed in alcuni il furore represso, ma è perché vedono vicina l’immane catastrofe.

Perché non prima il risveglio? Perchè sì tardi, proprio quando bussano alle porte della penisola le forze liberatrici degli Anglo-Americani? Ma è facile comprenderlo. Ora si vedono con l’acqua alla gola. Fra poco le loro nefandezze, le loro disonestà verranno a galla e quindi è meglio coprirle con un po’ di ’finzione. E non si rimorderà la coscienza dei mali commessi. E non starete lì, lontano da quelli che hanno combattuto  questo nefando stato di cose, perché la coscienza ce lo impedirà? Che la terra si sprofondi sotto i vostri piedi, perchè non siete degni di calcare questa terra, uomini abbietti!

Quanti malfattori, quanti omicidi imploreranno il perdono! Giustizia sia fatta su questi uomini. Non si guardi ad amicizia o parentela alcune, tutti passeranno ai tribunali: ai tribunali ove sarà fatta vera giustizia, tenendo conto del loro passato.

L'onestà provata di certi uomini ai quali sono stati fatti i maggiori torti, ai quali sono state inflitte le maggiori sofferenze, verrà a galla. Parleranno di loro gli amici, i parenti, la terra calcata da toro, le piazze, che ascolteranno in tempi migliori le loro giuste, oneste, grandi parole.

Fratelli, per quella giustizia, per quella libertà, che sarà consentito dare o far trovare ai nostri figli, siate pronti alla riscossa!

22 luglio 1943

 foglio 1943

IMPRESSIONI

L'impressione che tuttora, a distanza di un anno, permane in me e in me desta quasi un senso di curioso stupore, è quella di esser ancor vivo e di aver avuto la  fortuna di scamparla, malgrado la buona volontà messa di coloro che sparavano nel cercare di ucciderci.

Ma non è di questo che voglio parlare. Ma delle cose strane ed impensate che accaddero dall'inizio della manifestazione del 28, sino al termine di essa e al ricovero all’università e alla degenza in questa.

Ricordo per esempio l’incontro che ebbi col figliolo di De Ruggiero sul gruppo fascista Barbera, nel tentativo che ambedue facevamo, senza conoscerci, d'impossessarci d'una bandiera, «Ma è il figlio di De Ruggiero» esclamarono alcuni d'intorno, e senza saper come, mentre cogli occhi lucidi gli dicevo: «Ma l’ho visto, tuo padre, in carcere», ci troviamo abbracciati.

E ricordo la corsa per le strade di Bari o gli applausi ai soldati o la festa di bandiere e la gioia di partecipare a una libera e vera manifestazione di genuino entusiasmo.

Vidi solo per un attimo Graziano - portava una bandiera più grande di lui - e mi sorrise con malizia. Pensò forse alla notte del 25, quando, alle 2, col cuore in tumulto mi recai da lui per chiedergli se avesse saputo, che ormai era questione di giorni, papà sarebbe uscito dal carcere; e dovetti dirgliele di dietro la porta queste cose perché non voleva aprirmi: non mi aveva riconosciuto alla voce. E quando finalmente aprì,  mi mostrò una pistola che aveva in mano, contro ogni eventualità. Fu un sorriso malizioso, il suo, quel giorno alla manifestazione! Pensò certo a quella pistola ed alla mia meraviglia. Non lo vidi più, d'allora.

Vidi invece i soldati, truci, biechi, col facile puntato contro una folla armata solo di bandiere e le cui grida erano di entusiasmo, di felicità.

E rammento il colloquio, rapido spezzato, che avemmo con uno degli ufficiali di comando al pichetto. Sì, saremmo andati via subito, poiché così egli voleva, poichè quelli erano gli ordini, ma ci  rassicurarono almeno: quel vetro nero e lungo, sui balconi della federazione fascista, l'avrebbero rotto o tolto, finalmente, dopo tre giorni dalla caduta del regime. Costituiva una onta che stesse Iì ancora, Comunque - gli dicevamo - noi siamo diretti al carcere, a rilevare i prigionieri politici e quella via era un passaggio obbligato per recarsi colà. E non potette nemmeno risponderci, che la sparatoria cominciò. E fu un fuggi fuggi e molti si buttarono a terra, io pure: e a terra mirarono allora quelle iene. La prima, la seconda, la terza scarica di fucileria ci raggiunsero, la mitragliatrice non cessava di funzionare e mi sembrava che, così, in eterno si dovesse continuare, loro a sparare e noi a ricevere palle, impossibilitati a difenderci e perfino a correre scampo, riparo.  Ma perché sparavano, dunque, perché ci uccidevano? Perché avevamo gridato viva In libertà, perché esultavamo di gioia febbrile? Ma era tanto piaciuto l’esser schiavi, a coloro che sparavano, da esser felici d'incrudelire — senza alcuna utilità — su chi manifestava il proprio incontenibile entusiasmo per la libertà!

E intanto l’aria s'era impregnata di fumo o di polvere, i corpi giacevano agonizzanti sulla via, la strada era rossa di sangue, i gemiti dei feriti si levavano supplichevoli e incombeva il pericolo che sparassero, ancora dopo le tre scariche! Il dolore atroce, insopportabile, dato dalle ferite, m’indusse a fare, non lo dimentico, il calcolo freddo del loro numero e la valutazione della loro entità, «Posso vivere ancora, se mi soccorrono, e chi sa quanti come me ». E intanto, grida, gemiti, ma... ma nessun soccorso. E si faceva strada in me la convinzione che io e gli altri saremmo morti dissanguati. Canfora era alla mia sinistra e Civera gravava col suo peso sulla mia gamba spezzata. Ma gli altri, e Graziano e Lopez, che ne era di loro! E nessuno ci soccorre? Possibile che ai debba rimanere qui a morire? Ma io posso salvarmi se non contino a dissanguarmi e con me chi sa quanti altri!

Giunse di corsa il commissario Ruggeri, e gli chiesi allora: «ma un carretto, una carrozza, delle barelie?  E perché non ci soccorre?».  E una tristezza gelida, uno scoramento profondo scese nel mio cuore o nel cuore di coloro che sentirono la sua risposta, le sue grida, anzi, irose e corrucciate: «Ben vi sta, lì dovete rimanere, ve io siete meritato! Ma perché trattarci così? Si ha pietà dell'assassino che muore, lo si soccorre, se è necessario: e a noi nulla. Le autorità non volevano soccorrerci eravamo colpevoli di aver gridato: Abbasso, non evviva il duce!

Ma furono il popolo, i medici di passaggio e quelli della Università che ci soccorsero e ci misero sui carretti, o ci trasportarono a braccio. Vidi dei cittadini piangere, ma ne vidi molti scappar via. E a un tale, venuto in soccorso, ne chiesi stupefatto la ragione: «Invece di aiutarci... ». «Scappano - mi rispose - perché i questurini ed i carabinieri li arrestano, perché presenti alla manifestazione! E ricordo Capriati, Laforgia, Pesce, Lacroix, d' Agostino, Dioguardi quanto si prodigarono per farci coraggio e diminuire le nostre pene. E non mi sono sfuggite le parole di un generale che giunse in bicicletta: «Poveri figli, poveri figli, ma chi ha dato ordine di sparare, chi è stato!.. E il trasporto all'Università, la lunga attesa prima dell'operazione, il pianto soffocato quando, mentre ero sotto i ferri, un imprudente mi disse che Graziano era morto.

E qui in questo momento è doveroso ch'io ringrazii, a nome di tutti i feriti di quel giorno, i medici dell'Università o dell'Ospedale Militare. E un particolare ringraziamento vada al prof. De Blasi,  al prof. Catalano. al dottor Marinaccio, al col. Calvani, al prof, de Raffele, al prof. Milella, per la nobile fatica di assistenza materiale e morale che in quel giorno, e nel successivi ci prestarono con amore fraterno.

E dopo il danno, la beffa: Il piantonamento da parte del carabinieri col moschetto carico e il divieto conseguente di poter vedere i parenti, le madri, le spose, le fidanzate ed esser consolati dalla loro assistenza, E ricordo lo sofferenze e la morte di Pippo Gurrado, la morte del piccolo Masciantaro! E poi il processo a nostro carico e l'interrogatorio mentre eravamo degenti. I militari, nemmeno lì, in letto, ci lasciavano in pace!

Perchè, per loro, eravamo stati colpevoli, molto colpevoli: avevamo osato inveire «abbasso il duce», avevamo gridato: Viva In libertà.

s. m.